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Traduzioni pericolose

Cosa succede quando uno scrittore famoso e controverso veste i panni del traduttore?

Scalpore e baruffe tra intellettuali che giocano a chi ce l’ha più fedele, la traduzione, arrivando persino a togliersi il saluto. Per chi non ha tempo e vuole una recensione lampo, possiamo riassumere così il motivo per cui vale la pena di leggere Traduzioni pericolose, una raccolta di scritti sulla traduzione di Vladimir Nabokov curata da Chiara Montini per Mucchi Editore. Scherzi a parte, le ragioni per leggere questo libro sono molte, cercheremo di analizzare le più succulente.

IL NOCCIOLO DELLA QUESTIONE

«Sarò ricordato per Lolita, e per il mio lavoro su Eugenio Onegin». Non si può che partire da qui perché quest’affermazione mostra tutto il carattere di Nabokov. L’autore era fermamente convinto che la sua fama postuma sarebbe dipesa da un romanzo e una traduzione di un capolavoro della letteratura russa. Aveva ragione solo in parte: entrambi i libri suscitarono non poche polemiche alla pubblicazione, ma sarà ricordato solo grazie a Lolita. Il suo Eugenio Onegin, invece, oggi è conosciuto soltanto dalla nicchia della traduzione.

Come racconta Chiara Montini nell’introduzione «entrambi i libri sono provocatori: il primo narra la storia di un abuso dei più abbietti, insopportabili e meschini; il secondo si oppone a un altro tipo di abuso, quello della traduzione del testo.». Certo, il romanzo tratta di un abuso ben più grave rispetto a quello subito da un testo tradotto. Tuttavia, non va dimenticato che nel primo caso si tratta di finzione letteraria. «La traduzione, invece, non solo agisce sull’opera d’arte, ma la sostituisce, la traveste: il testo metamorfosatosi nel passaggio da una lingua e una cultura a un’altra, da un autore a un traduttore, rischia di diventare irriconoscibile. E questo è un abuso.». Come evitarlo? Secondo la visione estrema e intransigente di Nabokov, l’unica soluzione è la «traduzione letterale». È proprio intorno alla teorizzazione e alla strenua difesa del concetto di letteralità e fedeltà al testo originale che ruotano tutti gli scritti della raccolta.

NABOKOV TEORICO DELLA TRADUZIONE

Scommettiamo che ciò che avete appena letto vi ha fatto alzare un sopracciglio. Prima di formulare qualunque giudizio, occorre capire meglio con chi abbiamo a che fare. Non dobbiamo dimenticare che stiamo parlando innanzitutto di uno scrittore, per di più bilingue (russo e inglese) e poliglotta, ma anche di un accademico e, infine, di un traduttore che si è anche autotradotto. La sua concezione radicale di traduzione non può non essere influenzata da questo profilo poliedrico. Se poi ci aggiungiamo il suo amore per la provocazione, non ci possiamo stupire che abbia riacceso un dibattito ormai superato, difendendo con tenacia un concetto datato come quello di traduzione letterale, ancella dell’originale.

Ma che cos’è la traduzione per Nabokov?

Un «patetico affare» del quale non si può fare a meno, perché, per quanto una persona possa conoscere più lingue, difficilmente le padroneggerà come la propria; la traduzione è quindi un male necessario. Nabokov individua tre gradazioni di male, ovvero di errore, «nell’eccentrico mondo della trasmigrazione verbale». In ordine dal meno al più grave:

  • Ignoranza: si tratta di strafalcioni dovuti a una scarsa conoscenza della lingua straniera, che porta, per esempio, a trasformare un’espressione comune come “Bien être général” in “è buona cosa essere un generale”.
  • Omissione: si tratta di un errore più grave che consiste nell’eludere i passaggi più complicati del testo. Se è frutto dell’incomprensione, si può ancora tollerare, ma è imperdonabile se chi traduce «invece di accoccolarsi beato tra le braccia del grande scrittore, non fa che preoccuparsi del piccolo lettore che gioca in un angolino con qualcosa di pericoloso o indecente». Per esempio, in una delle prime traduzioni di epoca vittoriana di Anna Karenina, la protagonista dice «sono beremenna», un calco dal russo che fa pensare a una malattia esotica, perché il traduttore riteneva che scrivere “incinta” avrebbe turbato il pubblico.
  • Adattamento: il più grave dei peccati. Non ci sono scuse per chi distorce il testo originale, nel rozzo tentativo di imbellettarlo, privandolo di conseguenza di tutti i dettagli tangibili che raccontano l’alterità. Così, per esempio, nella versione russa, l’Ofelia di Shakespeare raccoglie violette, garofani, rose e lillà, invece di ranuncoli, ortiche, margherite e fiordalisi.

Questi errori possono essere commessi invariabilmente da tutti i traduttori che sono a loro volta suddivisi in tre categorie: «lo studioso, che desidera ardentemente che il mondo possa apprezzare quanto lui le opere di un ignoto genio; la scribacchina dalle buone intenzioni; e lo scrittore professionista che si rilassa in compagnia di un confratello straniero.». Niente possono lo studio e la diligenza dei primi due contro il genio del «poeta autentico».

Infine, non possono che esserci anche tre tipi di traduzione:

  • Parafrastica: una versione libera dell’originale, con omissioni e aggiunte. «Alcune parafrasi possono avere il fascino della dizione stilistica e della concisione idiomatica, ma nessuno studioso dovrebbe soccombere al bello stile e nessun lettore lasciarsi trarre in inganno.»
  • Lessicale ( o strutturale): «restituisce il significato di base delle parole (e il loro ordine). Questo può farlo una macchina con la supervisione di una persona bilingue intelligente.»
  • Letterale: «restituisce l’esatto significato contestuale dell’originale, aderendo ad esso tanto quanto le competenze associative e sintattiche di un’altra lingua lo permettono.»

In sostanza, il miglior tipo di traduzione possibile non è quello che si prefigge di trasmettere lo “spirito” dell’originale, restituendo un testo leggibile, ma quello che non fa sconti a chi legge. Per Nabokov dire di una traduzione che è “scorrevole” non è farle un complimento, ma evidenziare quanto abbia tradito l’autore.

NABOKOV TRADUTTORE

Quelle che avete appena letto non sono il frutto di elucubrazioni accademiche, ma il risultato di molti anni passati a “sporcarsi le mani”. Nabokov, infatti, inizia a tradurre giovanissimo. Già a undici anni traduce in alessandrini francesi Il cavaliere senza testa di Mayne Reid. Nel 1920 accetta la sfida del padre di tradurre Colas Breugnon di Romain Rolland. All’epoca Nabokov studia a Cambridge e conduce una vita dissoluta, l’opera richiede più tempo del previsto, ma porta a termine l’impresa nel 1922.

Nel 1940 emigra negli Stati Uniti dove insegna letteratura russa. La qualità delle traduzioni dei classici russi non lo soddisfa, perché nessuna offre una versione “fedele” dell’originale. Da qui l’idea di ritradurli, adottando via via un approccio sempre più letterale e pedagogico, fino ad arrivare all’ultima e “letteralissima” versione dell’Eugene Onegin di Puŝkin. Un’impresa epica e di lunga gestazione. Parliamo di un’opera divisa in quattro volumi: 265 pagine di traduzione e 1.220 pagine di commento. Sì, avete capito bene: le note, imprescindibili per comprendere i passaggi più complessi, sono più lunghe del testo stesso. Va detto che questa versione è stata pensata da Nabokov come un “bigino” per i suoi studenti. Si rivolge quindi a un pubblico istruito e curioso, che ha un’infarinatura di russo, ma non è in grado di leggere l’originale. La traduzione di questo testo ha poi generato alcuni degli scritti che trovate all’interno della raccolta, nei quali l’autore illustra il metodo meticoloso, al limite della pedanteria, con cui ha lavorato.

Alla frustrazione per le versioni inglesi dei classici, si somma poi quella di autore tradotto. L’unica soluzione sarebbe autotradursi. Trattandosi però di un’impresa impossibile, Nabokov decide di collaborare con alcuni traduttori, ai quali richiede una prima stesura letterale che rivede e corregge lui stesso. Ecco un estratto di una lettera in cui richiede un collaboratore:

«Mi occorre un uomo che conosca l’inglese meglio del russo – e un uomo non una donna. Sono dichiaratamente omosessuale in materia di traduttori. Verificherò io stesso ogni frase e resterò in contatto con lui tutto il tempo necessario, ma devo avere qualcuno che faccia il lavoro di base e che poi riveda le mie correzioni.»

Nabokov pretende quindi che il collaboratore rinunci alla paternità della propria traduzione e accetti che l’autore se ne riappropri. Il traduttore diventa un mero strumento, un’ancella dello scrittore.

Nonostante le sue posizioni estreme, i testi ritradotti, o rivisti, da Nabokov risultano leggibili e contengono note sporadiche. Tutti tranne l’Onegin

NABOKOV MAESTRO DI DISSING

Se pensate che il dissing sia una pratica moderna, non avete letto il botta e risposta tra Nabokov e il suo ex amico Edmund Wilson sulle pagine del New York Times Book Review. L’oggetto del contendere? Proprio la traduzione dell’Eugene Onegin.

Wilson si scaglia contro quella che definisce una «perversopedante» versione dell’amico, accusandolo, tra le altre cose, anche di essersi limitato, impedendo a se stesso di mettere in campo nella traduzione le proprie capacità di scrittore per incatenarsi all’opera originale.

Nabokov non si tira indietro e nella lettera aperta Risposta ai miei critici si difende da quella che definisce l’«animavversione» per la sua traduzione. La sua replica è un vero e proprio regolamento di conti: risponde punto su punto, motivando ogni sua scelta e concedendo ben poco all’avversario.

Non vi sveliamo i dettagli perché entrambe le lettere vanno lette con attenzione e corredo di popcorn. Possiamo però dire che, come sostiene Chiara Montini, entrambi gli scritti vanno oltre il commento alla versione nabokovkiana dell’Onegin. Sono, infatti, l’espressione di due modi diametralmente opposti di intendere la traduzione che forse non troveranno mai una conciliazione.