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Tradurre i grandi dell’alpinismo

“Tradurre è come arrampicare, ogni gesto deve essere pensato”, ha detto una volta la traduttrice Paola Mazzarelli, che la nostra Silvia ha avuto l’onore di vedere in azione durante gli anni di università, e di cui chi scrive ha ammirato la traduzione italiana dell’avvincente Parete Nord, scritto da Heinrich Harrer, uno dei primi alpinisti, nel lontano 1938, a scalare la parete nord del temutissimo Eiger e a riportare a casa la pelle. Per intenderci, parliamo dell’autore del libro Sette anni in Tibet, da cui è stato tratto l’omonimo film.

Forse la sto prendendo un po’ alla larga, ma mi piaceva l’idea di partire da una storia che mi ha appassionato per introdurvi un libro che ho trovato altrettanto piacevole e che ha anch’esso a che fare con la montagna. Se vi state chiedendo che cosa c’entri invece con la traduzione, vi rispondo subito: Lost in translation, pubblicato da Edizioni del Gran Sasso e scritto da Luca Calvi, è un condensato di esperienze di interpretazione (e di traduzione) unico nel suo genere. Come è già successo in passato, non sono stata io a cercare il libro, ma è stato il libro a trovare me: ogni tanto mi piace perdermi nell’atmosfera magica della Libreria della Montagna di Torino, un gioiellino che spero non chiuda mai, e un giorno, mentre curiosavo tra gli scaffali, il mio occhio ha notato, di sfuggita, la parola “translation” su una copertina. Mai avrei pensato, in quella libreria di nicchia, di scovare un volume che parlasse di traduzione. Di scalate e imprese estreme sì, ma di traduzione no. Il mio braccio si è mosso più veloce della mia mente, e meno di mezzo secondo dopo stringevo tra le mani la nuova scoperta.

Il sottotitolo di Lost in Translation è “I grandi dell’alpinismo visti da chi li traduce”. L’autore, Luca Calvi, è linguista poliglotta, scrittore, storico e docente universitario. Se ha scritto un libro così, va da sé che sia anche traduttore, interprete e appassionato di montagna e di scalate. La sua conoscenza diretta dell’ambiente alpino e le sue vaste competenze linguistiche gli hanno permesso, negli anni, di costruirsi un bagaglio di esperienze che lo ha portato a dare voce, nella nostra lingua, a figure leggendarie del panorama alpinistico mondiale, da Simon Yates a Tommy Caldwell, da Reinhold Messner a Igor Koller, passando per Dean Potter e Andy Holzer, quest’ultimo cieco dalla nascita.

In ogni capitolo del libro, Calvi racconta la propria esperienza come interprete di uno o più alpinisti, spiegando le circostanze che lo hanno portato ad accettare l’incarico e descrivendo l’indole e l’atteggiamento dello sportivo in questione per offrirci un quadro il più chiaro possibile della situazione. È interessante scoprire le piccole intese che nascono sul palco tra lui e il protagonista o la protagonista di turno (perché anche le donne sono riuscite a ritagliarsi uno spazio di tutto rispetto là, dove l’aria si fa più rarefatta), e le strategie che di volta in volta mette in atto per uscire da un’impasse, per far sentire a proprio agio l’oratore o l’oratrice, o per trasferire al meglio il concetto originale alla platea anche quando chi parla non si rende conto che lo sta mettendo in difficoltà. Come è successo con Ron Fawcett, definito dal sito Planetmountain “uno dei più forti climber inglesi degli anni ’70 e inizi anni ‘80”:

“Fawcett parla un inglese piuttosto stretto e con un accento piuttosto pesante, ben lontano da quella lingua comune che un traduttore aspirerebbe a sentir parlare. Non ha nemmeno troppe attenzioni verso le tempistiche richieste dalle traduzioni e mi costringe a riprenderlo in più occasioni, per consentire al pubblico di capire i significati che si nascondono dietro quella serie di suoni gutturali e generalmente bofonchiati con i quali è solito comunicare. Ovviamente questa considerazione la rivolgo a lui che finalmente mi fa dono […] di un bel sorriso e della promessa di fare del suo meglio per essere capito”.

In un’altra occasione, con un Doug Scott che provava a sentirsi superiore dall’alto della propria cattiva nomea (“Pensa che in Valtellina si dice che una delle traduttrici sia scappata dal palco piangendo”), Calvi non si è lasciato intimidire e ha risposto con un volume di voce “sufficientemente udibile da chi si trova[va] in prima fila”: “Ascoltami bene, grandissimo figlio di buona donna. Adesso o parli in maniera comprensibile oppure […] vedi quelle piccozze lì in fondo? Ecco, te le infilo una dopo l’altra sai dove. E non dalla parte del manico.” Reazione esagerata? A giudicare dal simpatico commento dello scalatore britannico Mick Fowler, non sembrerebbe: “Eh, Doug Scott. Una grande persona, racconta cose interessantissime. Se solo lo si riuscisse a capire.”

Che abbia a che fare con una persona che pare borbottare “tra sé e sé avendo in bocca quattro sassi rotondi” o con qualcuno che sulle prime non si fida della sua competenza, Calvi ci racconta che trova sempre il modo di sfangarla. Non si tira mai indietro di fronte alle sfide, nemmeno quando deve interpretare alpinisti disabili e si trova quindi a dover aumentare, come lui stesso la definisce, la propria “percettività” per immedesimarsi in una persona che non vede o non può usare le gambe per arrampicarsi; oppure quando la richiesta arriva all’ultimo secondo e alla domanda “Quando sarebbe?” si sente rispondere “Adesso”; non batte ciglio neanche quando Reinhold Messner teme che lui non riesca a reggere il ritmo della traduzione durante una conferenza in cui ci sono un inglese, una francese, un polacco e un’ucraina (non è una barzelletta): “Senti Reinhold, tu preoccupati di fare il Messner che a tradurre ci penso io.” Avrete intuìto che siamo di fronte a una personalità spiccata, un traduattore, come lo ha definito Alessandro Filippini, uno dei più autorevoli giornalisti di alpinismo italiani, penna storica della Gazzetta dello Sport.

Nel tracciare un ritratto molto umano delle persone che ha intervistato e interpretato, l’autore ci racconta anche di sé. L’entusiasmo per il suo lavoro è evidente e contagioso, e anche se inizialmente si ha l’impressione che tenda ad autoincensarsi, andando avanti con la lettura ci si ricrede, perché, in fondo, i tanti complimenti che ha ricevuto e che riporta con orgoglio gli sono stati rivolti davvero. E quindi, che male c’è nel riconoscere di essere capaci di svolgere la propria professione? Passiamo il tempo a sminuirci, prede della sindrome dell’impostore, ma ogni tanto potremmo arrampicarci anche noi su quella vetta altissima per gridare ai quattro venti che il nostro mestiere lo sappiamo fare, e anche bene.