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Storia della mia lingua

“La mia patria è la mia lingua, ha scritto Pessoa.
Io non sono mai rimasta senza patria, la mia patria è la lingua, ha detto María Zambrano.
La mia patria è la lingua, ha detto il poeta Juan Gelman.
La lingua è la nostra patria? Parlare è un filo che bisogna annodare una e un’altra volta, ha detto Herta Müller.”

Come scelgo i libri da leggere? In tanti modi, ma ammetto che quasi mai lo faccio leggendo la trama o la quarta di copertina. Qualche volta mi affido ai consigli delle persone con cui condivido gli stessi interessi, ogni tanto mi lascio catturare dalla copertina o ancora, a periodi, mi fisso su una casa editrice. Storia della mia lingua è un breve libro scritto da Claudia Apablaza e pubblicato nel 2023 da Edicola, nella traduzione di Marta Rota Núñez. Edicola è una casa editrice indipendente che ho iniziato a leggere lo scorso anno e che mi ha immediatamente colpita per la cura che mette nei suoi libri, dalle storie che racconta, al modo in cui lo fa fino allo stesso oggetto libro che si presenta come un vero e proprio gioiello. Edicola vive a cavallo tra due mondi, Italia e Cile, proponendo titoli di autori, ma soprattutto autrici, della narrativa di lingua spagnola, facendo della traduzione il cuore del proprio lavoro.

Storia della mia lingua fa parte della collana Al tiro, che raccoglie racconti e romanzi brevi della letteratura cilena contemporanea. Non saprei come definire questo testo, forse rientra nella sfera dell’autofiction, talvolta sembra un saggio. La protagonista della storia è una giovane donna che si trasferisce con la famiglia in Spagna da un Paese del Sud America. Nell’incipit del libro c’è tutto:

“Lunedì 4 marzo 2022, alle 11:02 del mattino, sono entrata nello studio della nuova ortodontista che mi avrebbe seguita a Madrid, in calle Ronda de Atocha. All’ingresso mi ha accolta una donna che si chiamava come me, Claudia, ma aveva un altro accento, un altro modo di comunicare. C’era un canto costante nella sua parlata, la mia al confronto sembrava piatta, monotona.”

La protagonista si trova fin da subito a confrontarsi con una realtà diversa dalla sua. Entrambe le donne parlano la stessa lingua, lo spagnolo, ma hanno un suono diverso, accenti da rimodulare, note a cui accordarsi. Come ci viene spiegato in una postilla che apre il libro, infatti, lo spagnolo conta quasi 600 milioni di parlanti nel mondo, ma è una lingua che nel tempo si è espansa e frammentata, tanto da risultare talvolta incomprensibile anche all’interno dello stesso impero linguistico. È una lingua che unisce – la nostra protagonista infatti si trasferisce a quasi 10.000 km di distanza da casa, però può continuare a parlare la stessa lingua – ma al contempo divide – è una lingua che bisogna di nuovo imparare a pronunciare. La lingua non è solo parola, è anche suono.

“Dopo aver visto le foto, l’odontoiatra mi ha detto che avevo un’occlusione dentale scorretta, forse dovuta a un uso prolungato del ciuccio o del biberon. I miei hanno sempre sostenuto che da guagua avessi questo vizio, le ho detto. […] Quando ho pronunciato la parola guagua, l’ho guardata negli occhi cercando un cenno di comprensione. Ormai l’avevo detto, non potevo più tornare indietro. Non potevo più scegliere la parola che avrebbe usato lei per dire lattante: bebé.”

Andando avanti scopriamo, dunque, che non solo il ritmo è diverso, ma anche le parole. Affinché anche il pubblico italiano potesse comprendere appieno queste differenze e vivere lo stesso spaesamento vissuto dalla protagonista, l’editore ha scelto di mantenere questi termini come da originale, senza inserire glossari o spiegazioni. Il libro è, quindi,costellato di parole in corsivo che ci avvicinano a Claudia o alla comunità linguistica di adozione, a seconda del caso.

“Ha aggiunto che avrei dovuto fare delle sedute di logopedia, oltre a tenere l’apparecchio ancora per qualche mese. Che, quando deglutivo o parlavo, la mia lingua spingeva i denti in avanti come fanno i bimbi piccoli, destabilizzando sempre di più l’occlusione e la mandibola. […] Con il tempo le persone imparano a mettere la lingua in alto e la mandibola si assesta nel modo giusto. Non gliel’avevano mai detto?”

In chiusura dell’incipit entra in gioco la polisemia della parola lingua, non più intesa come mezzo di comunicazione – o di incomunicabilità, come abbiamo visto – ma come organo fisico che permette di deglutire e masticare. Non solo, permette anche di articolare la parola nel modo corretto e, dunque, di comunicare. Ammetto che, quando ho letto queste righe e soprattutto la pagina che segue, che però lascio a chi vorrà il piacere di scoprirla, ho avuto un colpo al cuore perché anche io, come Claudia, posiziono male la lingua e ho difficoltà nel pronunciare correttamente alcuni suoni (come la s, ma preferisco dare la colpa alle origini romagnole).

Il libro, poi, si compone di una serie di piccoli stralci, di osservazioni, ricordi, riflessioni su tematiche diverse come la maternità, la scrittura, la famiglia, la lingua in tutte le sue accezioni, promemoria, appunti, piccole scene di vita quotidiana.

“Poco dopo il nostro arrivo a Madrid, mia figlia ha cominciato a frequentare una scuola non lontana da casa. […] Dopo qualche giorno di scuola, aveva già integrato diverse parole che si usano qui. Hala! Usa il passato prossimo invece del remoto, persino il vosotros spagnolo invece dell’ustedes cileno. Siamo andate a fare una passeggiata e, con le altre bambine, parlava così: habéis dicho, vosotras, sois. Da parte mia, invece, tento di evitarlo volutamente. Cerco la neutralità nella lingua, voglio rimanere sul confine, non approdare mai del tutto al loro modo di parlare, ma nemmeno al mio vero modo di parlare. Implica uno sforzo costante. Pensare questo, prima di aprire bocca: Non lo dirò come lo dico io, ma nemmeno come lo dici tu. Retrocedere e avanzare.”

Questo passaggio mi ha fatto riflettere su due aspetti in particolare: il primo riguarda il voler essere fedeli a se stessi e alla propria identità, anche attraverso la lingua (sia essa parlata o scritta), il nostro mezzo di espressione primario. La protagonista non vuole rimanere completamente radicata nella sua lingua madre, non si vuole autoescludere, ma al tempo stesso non accetta di inserirsi in un mondo nuovo senza lasciare un segno di sé. Il secondo, invece, riguarda lo scarto che si crea tra generazioni diverse di una stessa famiglia migrante. Mentre Claudia continua a riconoscersi nella lingua cilena e preferisce non cedere completamente allo spagnolo, la figlia vede in questa nuova lingua uno strumento di integrazione che sceglie di adottare senza sentirsi traditrice delle sue origini. Se posso permettermi di fare un parallelismo forse azzardato, questo frammento mi ha ricordato il film Spanglish, in cui madre e figlia si trasferiscono negli Stati Uniti dal Messico e mentre la madre inizialmente si ostina a non voler imparare l’inglese, la figlia lo studia fin da subito per potersi integrare nella nuova comunità che le ha accolte, finendo per fare spesso da interprete per la madre.

Per concludere, sebbene questo libro non parli di traduzione, lo trovo interessante perché permette di riflettere sulla lingua come strumento di comunicazione, sulla convivenza di varianti di una lingua che è apparentemente sempre la stessa ma che talvolta può essere causa di incomprensione e incomunicabilità, sulla lingua come identità e senso di appartenenza, sull’importanza del suono delle parole (favorito anche dal corretto posizionamento della lingua), aspetto al quale chi traduce deve sempre prestare la massima attenzione. La resa della parola spesso non basta, se il testo perde tutta la sua musicalità e poesia. Infine, è una lettura interessante anche dal punto di vista della traduzione, perché la nota iniziale, in cui l’editore spiega il motivo per cui nel testo si troveranno termini in lingua originale senza spiegazioni, ci dimostra l’importanza del lavoro di chi traduce. Una particolare scelta traduttiva, in questo caso specifico, ha dato al libro e alle parole un’intensità e un valore che, con una scelta diversa, non avremmo potuto apprezzare.