Il 27 gennaio del 1945 le truppe sovietiche varcano i cancelli di Auschwitz e scoprono un orrore di cui il mondo era all’oscuro. Dal 2000 in Italia e dal 2005 nel resto del mondo, il 27 gennaio è diventato il Giorno della Memoria, in ricordo delle vittime dell’Olocausto. È vero, oggi è solo il 24, ma come sapete la nostra rubrica cade con frequenza bisettimanale proprio il lunedì, perciò eccoci qui, in colpevole anticipo (come non si suol dire, “meglio prima che mai”).
E quindi eccoci qui a parlarvi di un libro che, è bene precisarlo, non si occupa di traduzione in senso stretto, però offre comunque uno spaccato del rapporto che Primo Levi ha avuto con la traduzione, e allo stesso tempo è un’occasione per commemorare ciò che è stato: I sommersi e i salvati di Primo Levi – Storia di un Libro (Francoforte 1959 – Torino 1986), scritto da Martina Mengoni.
Classe 1985, Mengoni ha un curriculum di tutto rispetto e ha già all’attivo diversi saggi su Levi, tra cui uno bilingue pubblicato con Einaudi. In quello che vi presentiamo oggi, l’autrice racconta la storia dell’ultimo libro scritto dal chimico torinese prima di togliersi la vita, I sommersi e i salvati, appunto, dedicando il primo capitolo Lettere di Tedeschi: l’origine alla questione della traduzione tedesca di Se questo è un uomo. Nel 1959 Primo Levi scopre che una casa editrice tedesca, la Fischer, ha deciso di pubblicare in Germania la sua opera più conosciuta. A comunicarglielo con una lettera è proprio colui che si occuperà della traduzione, Heinz Riedt, un cittadino tedesco che fra il 1943 e il 1945 aveva disertato la campagna d’Italia e, dismessa la divisa tedesca, si era unito alla Resistenza italiana portando avanti azioni di controspionaggio grazie alla conoscenza della nostra lingua, che aveva imparato da bambino tra Napoli e Palermo a seguito dell’attività diplomatica del padre.
Inizialmente Levi accoglie la notizia della traduzione con una certa emozione, perché dentro di sé ha un forte desiderio di far conoscere il proprio libro al popolo tedesco:
“All’annuncio di quel contratto, tutto era cambiato e mi era diventato chiaro: il libro lo avevo scritto sì in italiano, per gli italiani, per i figli, per chi non sapeva, per chi non voleva sapere, per chi non era ancora nato, per chi, volentieri o no, aveva acconsentito all’offesa; ma i suoi destinatari veri, quelli contro cui il libro si puntava come un’arma, erano loro, i tedeschi.”
Poi, però, subentra la preoccupazione: Chi è il traduttore? Sarà all’altezza? Sul sito del Centro Internazionale di Studi Primo Levi scopriamo che arrivò a scrivere “all’editore tedesco una lettera ai limiti dell’insolenza, diffidandolo dal cambiare una sola parola dal testo, «doveva essere più che un libro, un magnetofono»”. Come ci spiega Mengoni, “alle perplessità sulle difficoltà linguistiche di tradurre in tedesco un libro che faceva della Lagersprache uno dei suoi elementi costitutivi, si mescolava il timore sulle intenzioni, sull’atteggiamento, sul passato del traduttore.” Timori che lo stesso Riedt contribuirà a ridimensionare, rincuorando Levi e dando vita a uno scambio epistolare (19 lettere in tutto) stimolante per entrambi.
Com’è normale nello scambio tra chi ha scritto un testo e chi lo traduce, Riedt chiedeva spesso chiarimenti a Levi su ciò che intendeva dire o sul termine più adatto da utilizzare, e Levi correggeva inserendo commenti e proponendo soluzioni. La natura di questi scambi viene descritta da Mengoni e lasciamo come al solito che li scopriate voi, altrimenti riveliamo troppo. Ci teniamo però a farvi leggere le parole piene di gratitudine che lo scrittore torinese inviò a Riedt alla fine del lavoro di traduzione. Le trovate a questo link: https://www.madeinbolzano.it/past/il-prof-di-tedesco-di-primo-levi/
Come avrete capito dall’immagine che accompagna questo articolo, oggi il consiglio di lettura è doppio. Oltre al saggio di Mengoni, infatti abbiamo letto per voi anche L’altrui mestiere. Anche in questo caso non si tratta di un libro sulla traduzione, ma di una bella selezione di articoli di cultura generale scritti tra il 1964 e il 1984, uno dei quali si intitola Tradurre ed essere tradotti. Emblematica la descrizione che Primo Levi fa dello scrittore che si trova a essere tradotto: “Essere tradotti non è un lavoro né feriale né festivo, anzi, non è un lavoro per niente, è una semi-passività simile a quella del paziente sul lettino del chirurgo o sul divano dello psicoanalista, ricca tuttavia di emozioni violente e contrastanti”.