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Perdere il filo – Esperienze collettive di traduzione transfemminista

«Simbolicamente, ogni filo rappresenta una frase, sia essa pronunciata, letta, scritta oppure tradotta. Come perle su un filo, le parole imbastiscono una collana, si dispongono in un discorso. Basta poco perché ci sfuggano di mano in un’esplosione alabastrina.»

Quando ci autorizziamo a perdere il filo, cadono le sovrastrutture ed entriamo in spazi altri da guardare con occhi nuovi. Certo, è necessario mettersi in gioco, oltre che in dubbio, senza temere di far rumore. Uno degli strumenti di questo hackeraggio della realtà è la traduzione, e Perdere il filoEsperienze collettive di traduzione transfemminista, di Laura Fontanella, è il grimorio perfetto per «glitch» e «trickster» in cerca di pratiche disobbedienti.

Quello che vi presentiamo oggi non è un manuale di traduzione. Infatti, non ci troverete indicazioni su come si fanno le cose, ma piuttosto suggerimenti su come si smontano, per poi ricostruirle insieme. Si tratta di un compendio in cui Laura tira le fila di quell’esperienza indefinita, e in qualche modo inafferrabile, che è il laboratorio Gender in Translation, con tutti i dubbi e i found in translation che lascia in chi vi partecipa.

Bene allora, sleghiamo il filo e vediamo dove ci porta…

Intanto dichiariamo subito che questo post è di parte, Laura è una amica di WiP già da qualche tempo, ormai. È infatti stata ospite della rubrica, anzi l’abbiamo conosciuta proprio recensendo il suo primo libro, Il corpo del testo. Da lì alla proposta di portare in casa WiP il laboratorio Gender in translation, il passo è stato breve. Laura è stata poi anche la primissima ospite dell’allora esperimento Circolo PickWiP, del quale di recente ha inaugurato anche la terza stagione, presentando Perdere il filo, appunto. Ed eccoci qui, a chiudere il cerchio, per ora, con questa #traduzionepickwip o #circoloacolazione, decidete voi quale mutaforma preferite.

Dicevamo: il libro. Perdere il filo è più di un resoconto di esperienze traduttive. Si tratta di un viaggio attraverso le varie “stanze” del laboratorio: parte teorica, autocoscienza, traduzione e decompressione. Laura ci prende per mano e ci fa (ri)vivere l’esperienza di apertura e ascolto, collaborazione, scontro e faticosa decostruzione, fino a giungere all’abbraccio conclusivo e al finale aperto e sospeso. Questo metaracconto consente sia di leggere il testo in modo passivo, sia di prendere parte al gioco, di “fare come se…”. Per esempio, nel capitolo dedicato alle traduzioni prodotte durante il laboratorio, si può sospendere la lettura subito dopo l’analisi del testo fonte e provare a fornire una propria versione, prima di scoprire le soluzioni proposte dal gruppo.

Se si opta per giocare, non si può perdere l’occasione di fare autocoscienza, seguendo l’esempio di Laura che, come durante il laboratorio, rompe il ghiaccio raccontandosi. Soprattutto se si viene dalla traduzione e si ha poca familiarità con il mondo della militanza, questa fase può generare imbarazzo o addirittura sembrare una perdita di tempo. In realtà, è una parte fondamentale del laboratorio: è proprio lì, infatti, che si gettano le basi per l’ascolto reciproco e la decostruzione di dinamiche performative basate sulla competizione. Solo prendendoci il tempo per riflettere sul nostro posizionamento e, soprattutto, sulla nostra parte oscura, possiamo metterci al servizio del gruppo nell’ottica di una collaborazione orizzontale. Infine, dopo aver costituito un safe (o safer) space, che Laura preferisce tradurre con “spazio fidato” invece che con “spazio sicuro”, si può passare alla traduzione.

Ma cosa significa tradurre con un approccio transfemminista politicamente situato? Significa scardinare tutta una serie di stereotipi legati ai concetti stessi di traduzione e di insegnamento della traduzione. In primo luogo, non c’è una figura apicale che decide cosa tradurre e come farlo. Laura non si mette in cattedra, ma si pone come una sorta di Gandalf che accompagna la compagnia nelle pratiche di autogestione. Sì, è lei che propone una selezione di brani appartenenti a generi diversi e incentrati su temi rilevanti per il laboratorio, ma è il gruppo a scegliere con quali cimentarsi, e lo fa attraverso un gesto tanto semplice, quanto importante: votando.

Secondo aspetto rivoluzionario: si può sbagliare senza doversi vergognare. La sbaglieranza non è solo contemplata, ma anche accolta con uno sguardo benevolo, figlio della fase di autocoscienza. Chiunque ha il proprio turno di parola e può avanzare la propria proposta, che viene registrata accanto alle altre. Nasce così una sorta di Frankenstein, un «mostro collettivo», ben lontano dal concetto addomesticante di “bella e infedele”, che punta piuttosto a essere straniante. Non esiste una versione definitiva, tutte le idee sono valide e c’è spazio per il confronto, anche acceso, e per la contaminazione reciproca. Ogni sguardo conta, soprattutto quello di un’identità chiamata in causa dal testo fonte. Questo lavoro di gruppo produce degli occhiali magici, come li chiama Laura, che consentono di vedere un sottotesto che la società non permette di notare e che rischierebbe di andare perso.

Infine, basta poco per rendersi conto che quello del laboratorio non è soltanto un approccio linguistico al testo e che la traduzione non è il fine, ma il mezzo. Il lavoro sui brani è stimolante e divertente, ma, in fondo, è un pretesto per far emergere domande più profonde. Chi partecipa al laboratorio lo fa sì per un interesse per la traduzione, ma anche per mettersi in discussione e capire meglio la propria identità e quella di altre persone. Riflettere sui testi aiuta a decostruire dinamiche e sovrastrutture che ci portiamo dietro con fatica e che emergono chiaramente durante la traduzione collettiva.

Insomma, partecipare a Gender in Translation non ti fa avere il certificato di transfemminista con tanto di licenza di usare tutti i segni tipografici più strani secondo una nuova regola e un’ennesima standardizzazione di ciò che sfugge alla norma. Anzi, l’approccio transfemminista vuole che «la (nostra) traduzione non si appiattisca sotto il peso di una nuova istituzionalizzazione, che ceda dinanzi a delle semplificazioni pacificatorie: vogliamo che ci spiazzi sempre, che ci costringa a trovare possibilità sempre nuove, sempre inedite, che sappia rimanere plastica, fluida, vibrante.»

Come abbiamo dichiarato all’inizio, siamo di parte, ma vi assicuriamo che questo libro merita non solo per il contenuto, ma anche per la prosa incalzante, precisa e straniante al punto giusto. Pagine “divorabili” con una lettura a perdifiato. Inoltre, sebbene il libro abbia un’unica autrice, si sente la dimensione collettiva sullo sfondo, non soltanto per la descrizione della traduzione in gruppo, ma anche per la sottotrama di note a piè di pagina, nelle quali Laura chiama a raccolta le tante voci che ha letto e ascoltato per trasformare la teoria in pratica.

Se il nostro entusiasmo non vi ha ancora convinto, vi consigliamo di recuperare la registrazione della presentazione del libro iscrivendovi gratuitamente al Circolo PickWiP.

P.S. Trovate la spiegazione dei termini in corsivo all’interno del libro.

Buona lettura e buone pratiche!