L’obiettivo della nostra rubrica è scovare titoli accattivanti e, se possibile, poco pubblicizzati, perché ogni tanto ci piace proporvi qualcosa di particolare. Mondi e modi della traduzione rientra perfettamente in questa descrizione: il volume è il risultato di un progetto, Knowledge Dissemination in the Western Hemisphere, avviato nell’ambito del programma “Excellence Initiatives” dell’Università degli Studi di Bergamo. Scopo del progetto è diffondere il sapere e la conoscenza in Occidente usando come mezzo la traduzione, considerata “come una delle possibili forme di trasmissione culturale dal passato al presente e attraverso epoche diverse” e “[…] terreno fertile di ibridazione fra culture, non solo per le abilità linguistiche e stilistiche che richiede, ma anche per l’attenzione che deve dare alle diverse culture che sono messe a contatto.”
Nell’introduzione, Stefano Rosso, curatore del volume insieme a Marina Dossena, ci spiega che Mondi e Modi della traduzione “si fonda in buona parte sull’esperienza del Laboratorio di traduzione attivo da una quindicina d’anni all’interno del Corso di Laurea magistrale in Lingue e letterature europee e panamericane dell’Università di Bergamo”, e che è solo una delle cinque pubblicazioni frutto del progetto (gli altri titoli sono: Tradurre: un viaggio nel tempo; La circolazione dei saperi in Occidente. Teoria e prassi della traduzione letteraria; Token: A journal of English Linguistics; La circolazione del sapere nei processi traduttivi della lingua letteraria tedesca).
Mondi e Modi della traduzione colpisce per il suo carattere multidisciplinare, che potete giudicare da voi leggendo l’indice, riportato qui sotto. In grassetto abbiamo evidenziato i tre mini-saggi di cui vi parleremo oggi:
- La costruzione di un archivio digitale transnazionale e multilingue: il caso del “Margaret Fuller Transnational Archive” (Sonia Di Loreto)
- Pearl Buck nel catalogo Mondadori, 1933-1960. “L’Oriente favoloso” di un Nobel americano (Cinzia Scarpino)
- A Babel of Languages: Multilingualism and Translation in Tom Stoppard (Irene Ranzato)
- “Freeze, Miami Vice!”: sull’adattamento lingua-culturale in italiano della prima stagione della serie TV (Sara Corizzato)
- Bandidos e Chicano Gangsters: stereotipi linguistici nel cinema americano e nel doppiaggio italiano (Dora Renna)
- “I was always embarassed by the words sacred, glorious, and sacrifice”. Tradurre la scrittura statunitense della Grande Guerra (Anna De Biasio)
- From Pride to Prejudice: Transnational Countercultures and Queer Translations (Valeria Gennero)
- Translation as symbolic Action: Kenneth Burke (Davide Del Bello)
- Tradurre un’aria. La poesia “francese” di Paul Auster (Andrea Pitozzi)
- Tradurre la letteratura western americana (Stefano Rosso)
E allora partiamo, iniziando da un argomento che ci è molto familiare: la traduzione audiovisiva. Nel saggio “Freeze, Miami Vice!”: sull’adattamento lingua-culturale in italiano della prima stagione della serie TV, Sara Corizzato analizza la resa italiana di una serie che da noi ha avuto molto successo nonostante in fase di adattamento abbia perso gran parte dei riferimenti culturali originali. Tre sono le macrocategorie prese in esame: personaggi famosi e figure pubbliche; oggetti, vestiti, accessori e cibi; festività.
La prima stagione di Miami Vice uscì negli Stati Uniti nel 1984 e arrivò in Italia nel 1986. Corizzato ci racconta che nei primi minuti dell’episodio pilota vengono citati Michael Jackson e il suo brano Beat it (quest’ultimo non esplicitato, ma facilmente deducibile dalla battuta):
In italiano il nome dell’artista viene omesso, probabilmente perché, nell’86, Michael Jackson era sicuramente conosciuto in Italia, ma ancora non così tanto da essere considerato un riferimento riconoscibile da chiunque. Nell’adattamento si parla comunque di una persona afro-americana, ma in termini generici, e si perde ovviamente il riferimento al brano musicale (“Sparite, buffoni”), quasi impossibile da mantenere se non stravolgendo i dialoghi, strategia che non è percorribile né giustificabile in un simile contesto.
La stessa sorte viene riservata a Wolfman Jack, disc-jokey americano molto famoso nella seconda metà del ‘900, che in italiano viene ridotto a “quel tizio”:
Vi facciamo notare anche come “turn this guy down” sia stato reso con “abbassa il volume”, ottima strategia traduttiva per aggirare l’ostacolo, spostando l’azione dalla persona (quella che parla) all’oggetto (la radio che trasmette la voce).
Sul versante dei riferimenti a cibi/bevande e relativi marchi famosi, strappa un sorriso l’adattamento del Big Mac di Mc Donald’s:
L’apertura del primo Mc Donald’s in Italia risale al 1985. Prima che il marchio diventasse famosissimo anche da noi, distribuendosi in maniera capillare, passarono ancora diversi anni. All’epoca, quindi, mantenere il riferimento avrebbe voluto dire lasciarlo cadere nel vuoto, infrangendo la regola (dell’adattamento audiovisivo) secondo la quale il pubblico deve capire subito l’informazione che gli viene data senza doversi porre mille domande. Di conseguenza il Big Mac è diventato “un paio di biscotti”.
L’ultima macrocategoria, quella delle festività americane, cita Halloween, ormai più che sdoganata, e la Festa del Ringraziamento, altrettanto conosciuta ai giorni nostri. Negli anni ’80, però, Halloween non la festeggiavamo di certo, e il ringraziamento era solo un’espressione di gratitudine, per cui nell’adattamento le due ricorrenze sono diventate rispettivamente Carnevale e “festa”, nel senso generico del termine.
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“I was always embarassed by the words sacred, glorious, and sacrifice”. Tradurre la scrittura statunitense della Grande Guerra, scritto da Anna De Biasio, è il secondo saggio che ha attirato la nostra attenzione. Avete mai pensato che, traducendo un romanzo a sfondo bellico da una lingua all’altra, l’uso delle parole può cambiare a seconda di come la cultura di arrivo concepisce il conflitto? De Biasio riporta una citazione dello storico Jay Winter, il quale sostiene che “Languages of war, like those of peace, are neither interchangeable nor are they transparently equivalent. Each brings its history, its music, its memory of the past with it.” Sulla base di questo presupposto, è interessante notare come, tra le due Guerre, i romanzi sul Primo Conflitto Mondiale fossero molto popolari ma sottoposti a notevole censura, soprattutto se veicolavano sentimenti pacifisti. Stesso discorso in epoca fascista, quando chi pubblicava e chi traduceva doveva fare i salti mortali per riuscire ad aggirare tutti i paletti imposti dal regime, che mal tollerava tutto ciò che mettesse in cattiva luce lo sforzo bellico e le sue conseguenze. Se l’argomento della censura in traduzione durante il Ventennio vi affascina, vi invitiamo a leggere un altro nostro articolo, Editoria e traduzioni ai tempi del fascismo.
C’era poi chi, come Hemingway, contestava apertamente l’uso di determinate parole in relazione alla guerra, perché non ne riconosceva la valenza. In A Farewell to Arms (Addio alle armi), lo scrittore fa dire a uno dei suoi personaggi la seguente frase, che dà il titolo al saggio: “[…] I was always embarassed by the words sacred, glorious, and sacrifice and the expression in vain… I had seen nothing sacred, and the things that were glorious had no glory and the sacrifices were like the stockyards at Chicago if nothing was done with the meat except to bury it”. Di sicuro, il caro vecchio Hemingway non le ha mai mandate a dire a nessuno, nemmeno per iscritto.
Una curiosità: per il contratto di traduzione di Addio alle armi, Fernanda Pivano fu arrestata dalle SS. Di questa e di altre storie legate a Nanda vi abbiamo parlato nell’articolo Un omaggio alla traduttrice della Beat Generation.
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Tradurre la letteratura western americana, di Stefano Rosso, ci ricorda quanto l’Italia abbia amato il genere western in ogni sua forma, ovvero film, romanzo e fumetto. È iniziato tutto con il romanzo, e quindi con la traduzione, che ha contribuito a diffondere un immaginario che, anche se in misura minore, continua ad appassionarci. I primi libri americani a tema western arrivarono in Italia molto presto, nella prima metà dell’Ottocento, ma per via delle scene violente e delle descrizioni a volte inutilmente prolisse furono sottoposti a notevoli adattamenti e “addomesticati” a tal punto da diventare a tutti gli effetti letteratura per ragazzi. Come spiega Rosso, anche autori come Mark Twain e Jack London subirono la stessa sorte, pur non essendo scrittori di western puri. Il primo, neanche a dirlo, fu autore di un resoconto di “un viaggio picaresco nel West pieno di pagine memorabili”, arrivato da noi solo nel 1959 con il titolo Vera vita, e poi nel 1993 con il titolo In cerca di guai. (E a proposito di Twain e della sua vena spiritosa, tempo fa abbiamo letto per voi La terribile lingua tedesca, un libro spassoso).
Le riflessioni relative al western nel cinema e nel fumetto le lasciamo alla vostra curiosità, perché non vogliamo certo rischiare di annoiarvi dilungandoci ulteriormente. Non siamo mica nell’Ottocento.
Buona lettura!