Oggi, per #traduzioneacolazione vi parleremo di Lost in Translation, un libricino redatto da Ottavio Fatica per la collana Microgrammi di Adelphi. Il filo conduttore di queste circa 60 pagine da leggere tutte d’un fiato è l’attività di traduttore dello stesso Fatica.
Lost in Translation raccoglie cinque brevi riflessioni sulla traduzione, “scorribande”, come le definisce l’autore, trasmesse dalla Radio Svizzera Italiana nell’estate del 2022.
Partendo dalla Giungla di Kipling, che “è piena di parole che sembrano dire una cosa ma ne significano un’altra”, Fatica descrive “un profondo, doloroso senso d’inappartenenza, lo stesso che ha in retaggio il traduttore, creatura di confine, frontaliero per indole e mestiere. Per destino.”
Una delle analogie che più colpiscono tra quelle usate in questo piccolo (as)saggio è quella del traduttore come “sherpa”: ispirandosi al personaggio di Sam ne Il Signore degli Anelli, Fatica sostiene che Tolkien “senza volerlo ha tratteggiato come meglio non si può l’inedito ritratto del traduttore come sherpa”, vale a dire “un montanaro che si è messo al servizio dello straniero da tradurre […] e lo guida passo passo fino a cime […] impervie”, e “una volta pervenuti grazie a lui all’agognata meta, ecco – si ferma un passo prima, un passo indietro, e lascia allo straniero il dubbio privilegio di piantare la bandiera sulla vetta. Questo fa il traduttore sherpa con l’opera tradotta, fa da intercessore. La traduzione sta sotto la dura legge della sostituzione. Ma così apre a impagabili, inedite supplenze.”
Tra una riflessione e l’altra, l’autore sfiora anche la poesia, spesso e volentieri considerata intraducibile. “La traduzione di poesia in quanto poesia è sempre questione di resa” perché “la traduzione di una poesia è una poesia che ha in un’altra poesia la sua ragione d’essere. Il traduttore è il poeta del poeta […] un poeta al quadrato. […] Se tradurre è masochistico, tradurre poesia in poesia è disciplina da fachiri e da contorsionisti […]. Farsi ingabbiare avvinti da mille catene, liberarsi e uscirne vivi per arrivare a porgere una trappola altrettanto bella, ardua, avvincente, in dono al lettore: è questa la sfida per il traduttore.”
Portandoci l’esempio di Lafcadio Hearn, Fatica ci dà, poi, il suo punto di vista sul “ritradurre un testo nella lingua di partenza” e ci lascia con una sfida con se stesso in occasione della traduzione di Guerre, romanzo “riesumato” di Céline: “dovrò per paradosso ritrovare la giusta dismisura adatta a lui, a quello che vuole ottenere con le sue parole, nella mia lingua.”
Sperando di aver suscitato la vostra curiosità, se non lo avete già fatto, vi invitiamo a leggere Lost in Translation per scoprire perché secondo Fatica “tradurre non è un’arte per chiunque”, e trarre le vostre conclusioni su questo “corpo a corpo” con il testo e l’autore.