catchword
- Tipogr. La prima parola della pagina seguente inserita nell’angolo inferiore destro di ogni pagina di un libro, al di sotto dell’ultima riga. (Ormai usato raramente).
- Una parola posizionata in modo da colpire l’occhio o attirare l’attenzione, in partic la parola posta all’inizio di ciascuna voce nei dizionari o simili.
Un inizio in medias res seguendo le istruzioni meticolose di una vera e propria caccia alle parole grazie alla quale nacque una bizzarra amicizia. Questa è la storia di James Murray e William Chester Minor, Il professore e il pazzo e del loro straordinario contributo alla prima edizione dell’Oxford English Dictionary
Prima però un antefatto…
L’idea di questo post è nata per caso l’inverno scorso. In una serata “divano-copertina-film”, lasciamo che uno dei tanti pusher di intrattenimento digitale ci suggerisca qualche titolo. Una scorsa veloce all’elenco e l’occhio ci cade su The Professor and the Madman attori protagonisti Mel Gibson e Sean Penn, neanche leggiamo la sinossi e gli diamo una chance. Passa qualche minuto e ci accorgiamo che la trama si snoda intorno a lingua, parole e dizionari ed è subito un susseguirsi di “torna indietro, vediamo come hanno risolto questa rogna in doppiaggio”, “e invece nei sottotitoli?”. Dopo aver prolungato la durata del film ben oltre i 124 minuti previsti, andiamo a letto con un dubbio: e se fosse una storia vera?
Ebbene sì, una rapida ricerca in rete ci conferma che il film è un adattamento cinematografico del saggio di Simon Winchester: The Surgeon of Crowthorne: A Tale of Murder, Madness and the Love of Words, noto dalla seconda edizione con il titolo di The Professor and the Madman: A Tale of Murder, Insanity, and the Making of the Oxford English Dictionary. Il libro è stato tradotto in italiano da Maria Cristina Leardini per i tipi di Adelphi. Ed eccoci qui a suggerirvelo come lettura estiva.
STORIE NELLA STORIA
Grazie a un lavoro di ricostruzione meticoloso, setacciando archivi pubblici e privati, Simon Winchester ripercorre le tappe che hanno portato alla redazione dell’Oxford English Dictionary, ma porta anche alla luce una storia che si cela da sempre dietro quella straordinaria impresa.
Dopo quasi un ventennio di collaborazione, James Murray, responsabile infaticabile del progetto, volle conoscere di persona il misterioso lettore volontario che si era rivelato il più prolifico cacciatore di lemmi del dizionario: un certo “Dottor W. C. Minor”. Leggenda vuole che, solo una volta all’asylum di Broadmoor, Murry capì che il medico schivo con il quale aveva intrattenuto un intenso scambio epistolare, non era il direttore dell’istituto, bensì un paziente.
Il 17 febbraio del 1872, William Chester Minor, con una scarica di tre colpi di revolver, aveva ucciso un passante a Lambeth Marsh, quartiere malfamato della Londra vittoriana. Durante il processo emerse che l’assassino era un uomo colto e di buona famiglia, ex medico militare dell’esercito americano, reduce della Guerra di Secessione e affetto da una grave sindrome paranoide. In seguito agli orrori visti in guerra, il chirurgo aveva mostrato i primi segni di squilibrio, era stato congedato dall’esercito per motivi di salute ed era stato ricoverato per un periodo in manicomio negli Stati Uniti. William Chester Minor fu dichiarato non colpevole per infermità mentale e rinchiuso nel manicomio criminale di Broadmoor “sinché piacerà a Sua Maestà”.
In parallelo si svolgeva la vita dell’altro protagonista di questa storia: James Murray. Scozzese di umili origini, Murray aveva un’inesauribile sete di conoscenza e si costruì, da autodidatta, un bagaglio culturale fuori dal comune.
Un estratto di una lettera di presentazione, ripresa anche nel film, che Murray scrisse a trent’anni, candidandosi per un impiego al British Museum. Giudicate voi:
“Devo dire che la filologia, sia comparativa sia specialistica, è stata per tutta la vita il mio campo di ricerca favorito, e che possiedo una padronanza generale delle lingue e della letteratura delle classi ariane e siro-arabiche; con ciò non voglio dire di avere familiarità con tutte o quasi tutte, ma di possedere le conoscenze generali lessicali e strutturali che fanno della loro conoscenza più approfondita solo una questione di un po’ di applicazione. Di diverse ho una padronanza più solida, come delle lingue romanze – italiano, francese, catalano, spagnolo, latino e in misura minore portoghese, valdese, provenzale e vari dialetti. Nel ramo germanico, ho un’accettabile familiarità con l’olandese (dovendo, in qualità di corrispondente commerciale, leggere in olandese, tedesco, francese e occasionalmente in altre lingue), il fiammingo, il tedesco, il danese. I miei studi di anglosassone e meso-gotico sono stati molto più accurati, avendo preparato su queste lingue alcuni lavori per la pubblicazione. So un po’ di celtico, e al momento sono impegnato con lo slavo, avendo raggiunto una soddisfacente conoscenza del russo. Nell’ambito del persiano, della scrittura cuneiforme del periodo achemenide e del sanscrito, so quanto basta per gli obiettivi della filologia comparativa. Ho una conoscenza dell’ebraico e del siriaco sufficiente per leggere a prima vista l’Antico Testamento e la Peshitta; a livello inferiore conosco l’arabo aramaico, il copto e il fenicio fino al punto in cui fu lasciato da Genesio.”
Il British Museum respinse la sua candidatura. Dovette attendere undici anni, ma nel 1878 James Augustus Henry Murray ottenne la sua rivincita: i Delegati della Oxford University Press gli offrirono l’incarico prestigioso di direttore editoriale del nuovo grande dizionario della lingua inglese, incarico al quale dedicò il resto della sua vita.
IL DIZIONARIO CHE LI FECE INCONTRARE
Il terzo protagonista del saggio è senza dubbio l’Oxford University Dictionary, senza il quale due uomini per certi versi così affini, ma anche così distanti, non si sarebbero mai incontrati.
Il dizionario ha un ruolo di rilievo anche nella struttura del libro. Winchester infatti fa precedere ogni capitolo da una voce originale dell’OED che nella versione italiana viene lasciata in inglese in esergo e tradotta alla fine del volume.
Per capire l’importanza di questo dizionario per la lingua inglese bisogna fare un salto nel passato.
Se nel Cinquecento in Italia e in Francia nascevano le prime accademie (la Crusca fu fondata nel 1582) e i primi dizionari, in Inghilterra la lingua veniva parlata e scritta; ma non era “fissata”, si dava per scontata. Quando scriveva le sue opere, William Shakespeare non poteva “look up” un termine in un dizionario, perché semplicemente non esisteva. Esistevano più che altro raccolte di parole, come il Shorte Dictionarie for Yonge Beginners, un dizionario latino-inglese, con i termini organizzati non in ordine alfabetico, ma per argomenti. Nei secoli successivi ci fu qualche timido tentativo di sistematizzare la lingua inglese. Tra questi l’esempio più maturo fu il Dictionary of the English Language di Samuel Johnson, pubblicato nel 1755, il primo vero dizionario come lo intendiamo oggi. Anche se riportava una selezione limitata di lemmi, divenne famoso per le definizioni eleganti, ma anche per l’approccio dell’autore alla lessicografia. A differenza di altri intellettuali dell’epoca, che ritenevano che l’inglese avesse ormai raggiunto il massimo grado di perfezione e che andasse fissato in un dizionario per tutelarlo, Johnson si rifiutava di sistematizzare la lingua perché rimanesse pura, perché riteneva fosse un’impresa inutile e impossibile.
Nell’Ottocento la divulgazione della lingua inglese diventò uno strumento imperialistico, quindi la realizzazione di un dizionario che raccogliesse tutte le parole della lingua diventava di vitale importanza per la sua diffusione. Fu così che nacque il faraonico progetto dell’Oxford English Dictionary. Ci vollero settant’anni per completare i dodici volumi della prima edizione, aggiornata e integrata mezzo secolo dopo con una seconda edizione che contava venti volumi.
La cifra distintiva di questo dizionario era l’uso di citazioni tratte da fonti scritte per illustrare il significato e l’uso di ogni singola parola. Ogni citazione dimostrava come era stata usata la parola nel corso dei secoli, quali variazioni aveva subito nel significato, nell’ortografia e nella pronuncia e, soprattutto, quando era entrata per la prima volta nella lingua.
Per portare a termine una simile impresa servivano tempo, energie, ma soprattutto tanti occhi volontari che spulciassero libri e giornali in cerca di parole e citazioni. Per questo Murray fece pubblicare annunci sui giornali e volantini nei quali reclutava lettrici e lettori volontari e forniva le istruzioni per compilare le schede che dovevano contenere la parola, la citazione e il titolo del libro o la testata di giornale dal quale proveniva. Poi, con i suoi collaboratori, all’interno dello Scriptorium, una sorta di baracca che si era fatto costruire in giardino, vagliava le tonnellate di schede, suddivideva i significati di ciascuna parola secondo le varie sfumature assunte nel tempo e abbozzava una prima definizione. “Definire adeguatamente le parole è un’arte sottile e peculiare. […] Non ci deve essere alcuna parola all’interno della definizione che sia più complicata o che abbia meno probabilità di essere conosciuta della parola che si sta definendo. La definizione deve dire quello che la cosa è, e non quello che non è…”.
Il caso volle che uno di quei volantini finì tra le pagine di uno dei libri che Minor ricevette nella sua cella. In virtù della sua buona condotta e dei suoi mezzi, Minor godeva infatti di qualche privilegio a Broadmooor, tra i quali una piccola biblioteca personale. Appena lesse le istruzioni, chiese e ottenne il permesso di partecipare al progetto. Elaborò un suo metodo per rendere la ricerca più efficace e, solo quando fu pronto, scrisse a Murray per sapere di quali parole avessero più bisogno. Così iniziò a inviare le schede a un ritmo impressionante, firmandosi soltanto W. C. Minor. Concentrarsi sul dizionario lo distraeva dai suoi demoni e gli forniva uno scopo: quelle lunghe ore di ricerca sui libri furono quasi una terapia. Grazie al suo contributo, ci fu la svolta e si giunse alla pubblicazione del primo volume, sul quale Minor compare tra i ringraziamenti.
Nonostante il monumentale dizionario sia un’opera mirabile per la sua complessità, non mancano le critiche. Al linguaggio dell’OED infatti viene rimproverato di essere antiquato e ampolloso, oltre che di essere espressione di un atteggiamento sessista, razzista, imperialista, pedante e sorpassato. Ad esempio, nella definizione originale, riportata tra virgolette nella versione moderna, dell’imprecazione “bloody” (maledetto) si legge: «ormai costantemente in bocca alle classi sociali più basse, dalle persone rispettabili è considerata una “parola esecrabile”, sullo stesso piano del linguaggio osceno o blasfemo, e dai giornali (nei verbali della polizia ecc.) viene solitamente riportata come “b—y”.» Se poi vi appassionano le diatribe lessicografiche, non potete perdervi quella sulla parola ”protagonist”. Vi anticipiamo che, secondo un’interpretazione del termine, avremmo commesso un errore parlando di tre protagonisti.
Questi sono solo i fatti principali, ma vi garantiamo che il saggio è ricco di aneddoti e dettagli appassionanti. Dosando con maestria spirito investigativo, precisione storica e prosa incalzante, Simon Winchester ha reso giustizia a una storia che meritava di essere raccontata.
E il film? Si tratta di un adattamento abbastanza fedele al libro, anche se indugia soprattutto sui fatti più spettacolari, come comprensibile. Chiaramente in lingua originale si possono apprezzare fino in fondo i “duelli” all’ultima parola, oltre agli accenti dei personaggi, che nel doppiaggio si perdono. Tuttavia, non possiamo che apprezzare il lavoro di chi ha adattato i dialoghi, riuscendo a compensare le inevitabili perdite e a rendere credibile un film incentrato su un dizionario inglese doppiato in italiano.
A nostro parere però, come si dice in questi casi, è meglio il libro!