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La traduzione nell’era digitale

“Nell’epoca di Google Translate, il traduttore umano è condannato all’estinzione su larga scala, o alla pittoresca marginalità di chi coltiva un hobby la domenica?”

Sì, la nostra rubrica del cuore è tornata e non teme di affrontare subito un argomento scomodo. Basta fare un giro su LinkedIn per capire che la domanda con cui abbiamo aperto è la stessa che si pongono anche molte colleghe e colleghi. Il libro che vi proponiamo oggi, La traduzione nell’era digitale, un saggio di Michael Cronin tradotto per Morellini Editore da Giada Ballerini e Chiara Denti, tenta proprio di analizzare le conseguenze sociali, culturali e politiche delle profonde rivoluzioni che sta subendo la nostra professione a causa delle tecnologie emergenti.

INTERAZIONE TRADUZIONE-STRUMENTI

A più riprese nel libro si sottolinea come la traduzione sia condizionata dalla tecnologia che utilizza, e la condizioni a sua volta. Già in passato, infatti, ha dovuto adeguarsi a cambiamenti epocali. Pensiamo, ad esempio, all’invenzione della stampa, per non parlare della nascita dei dizionari, o della standardizzazione dell’ortografia, che ha portato a una maggiore fruibilità dei testi, per arrivare poi all’alfabetizzazione, che ha determinato un aumento della richiesta e una riduzione dei tempi di consegna. Più di recente, la globalizzazione del secolo scorso ha portato allo sviluppo dell’industria della localizzazione, ossia “l’adattamento linguistico e culturale di un contenuto digitale per soddisfare le richieste di un mercato straniero e la fornitura di servizi e tecnologie per la gestione del multilinguismo attraverso il flusso dell’informazione globale e digitale”. Abbiamo quindi assistito al passaggio dalla concezione romantica di traduzione come attività artigianale a prodotto di massa e processo industriale su larga scala, gestito da multinazionali che forniscono servizi linguistici per altre multinazionali.

Oggi, però, la sensazione è che la traduzione stia attraversando un cambiamento molto più radicale e spaventoso. L’avvento del digitale ha dato uno scossone alle fondamenta della professione. Siamo passati dalla lettura sulla pagina a quella sullo schermo e abbiamo dovuto fare i conti con l’istantaneità della comunicazione sul Web, che pretende risposte 24 ore su 24 e 7 giorni su 7. Tutto ciò ha condotto alla proliferazione di servizi di traduzione automatica online, app per gli smartphone e software di traduzione alimentati dall’intelligenza artificiale in continua evoluzione. Da un lato, la domanda di traduzione continua a crescere, ma dall’altro è sempre più tangibile il timore che saranno le macchine a soddisfare tale richiesta.

PRINCIPALI CAMBIAMENTI INTRODOTTI DAL DIGITALE

L’autore analizza l’impatto delle nuove tecnologie sulla traduzione da molteplici punti di vista e attraverso un approccio multidisciplinare. Qui ci concentreremo sugli aspetti per noi più rilevanti, sperando di incuriosirvi e incoraggiarvi ad approfondire.

Volume

Uno dei primi aspetti su cui impatta il digitale è il volume di contenuti. L’estrema flessibilità degli strumenti e la loro capacità riproduttiva porta alla generazione di una grande varietà di prodotti. Inoltre, con l’avvento dei social network, gli utenti stessi sono diventati sia consumatori che produttori di contenuti, in una (brutta) parola prosumer.

A fronte di un aumento della massa di materiale da tradurre, si sono sviluppati due tipi di traduzione: professionale, umana e di alta qualità, riservata a settori delicati come quello legale o il marketing, e una indicativa (gist translation), automatica o semiautomatica, talvolta neanche svolta da professionisti, ma dagli utenti stessi, che diventano post-editor improvvisati. Inutile dire che quest’ultimo tipo è il più diffuso e richiesto, in barba alle battaglie di chi prova a mostrarne i limiti. Questo disallineamento è dovuto al fatto che chi traduce di professione dà valore al dettaglio e alla qualità, mentre chi richiede questo tipo di servizio si accontenta di una versione approssimativa, il cui unico scopo è il trasferimento di informazioni da A a B, senza tenere conto dell’integrità della lingua o delle sfumature. Per intenderci: il famoso “basta che si capisca”.

Tempo

La natura del Web, asincrona (mittente e destinatario non devono essere connessi allo stesso momento, il contenuto è sempre disponibile e Internet è sempre “acceso”) e bidirezionale (si può rispondere a qualunque ora, non c’è controllo su quando un’informazione viene ricevuta), ha fortemente accelerato la comunicazione e la fruizione dei contenuti e, di conseguenza, i tempi di esecuzione della traduzione. Il ritmo di lavoro frenetico dà vita a un “inferno cinetico” con conseguente stress da inadeguatezza. Chi traduce ha il terrore di non rispondere abbastanza in fretta e di non essere abbastanza veloce nel lavoro. Secondo Cronin, siamo di fronte a una sfida etica, perché abbiamo il compito di integrare e difendere la cronodiversità nelle pratiche traduttive. Ossia, sta a noi del mestiere lottare e proteggere ritmi di lavoro differenti e diverse esperienze di tempo per salvaguardare il nostro benessere.

Costo

Abbiamo visto come il volume di prodotti da tradurre sia aumentato a fronte di una riduzione dei tempi di esecuzione. C’è un fattore, però, dal quale dipendono questi due e che li sovradetermina: il costo. La stessa natura polisemica del linguaggio è costosa. Quanto più si esprime in una lingua, tanto più costa tradurlo in altre lingue. Cronin porta l’esempio dell’Unione Europea, in cui ogni frase in una lingua dà vita ad altre 23 nuove frasi. Siccome esistono molti modi di dire la stessa cosa, si genera continuamente e involontariamente nuovo materiale, definito “contenuto accidentale”, che riduce la chiarezza e la facilità di utilizzo di un contenuto.

Seguendo la retorica della trasparenza, ma con il reale obiettivo di ridurre i costi, nascono i linguaggi naturali controllati. Si tratta di linguaggi che, in diverse lingue, seguono specifiche regole grammaticali e stilistiche volte alla semplificazione, come la riduzione del vocabolario a un numero di lemmi approvati, l’utilizzo di frasi brevi, la forma attiva al posto di quella passiva, e così via. In questo modo non solo i testi di partenza diventano più traducibili, ma, grazie alle memorie dei CAT-tool, è possibile riutilizzare un gran numero di traduzioni, riducendo appunto il “contenuto accidentale” nella lingua fonte e in quella di arrivo.

Parallelamente, si assiste al prevalere dell’inglese come lingua franca per la comunicazione globale. L’inglese, infatti, pur non essendo la lingua madre di nessun Paese dell’Unione Europea, è usato come lingua franca nei discorsi comunitari. Ma l’inglese è anche una sorta di cyberlingua dell’innovazione e della comunicazione digitale che ha bisogno di un’interfaccia cyborg che unisce traduttori e traduttrici da un lato e tecnologia (memorie di traduzione) dall‘altro. L’inglese di cui parliamo è, però, già tradotto in partenza. Nell’ottica di una comunicazione interculturale responsabile, si sviluppa l’idea del Global English di Martin Shell, ovvero un inglese privato di tutte le proprie peculiarità che costringe i parlanti madrelingua ad autotradursi in una lingua semplificata per rendere il proprio contenuto più intellegibile e traducibile.

Secondo Cronin queste due soluzioni sono utopistiche e nascondono dei costi delegati e nascosti. Sia l’adozione dei linguaggi controllati, sia l’uso dell’inglese come lingua franca, si basano su una logica digitale priva di attrito caratterizzata da una convertibilità immediata dei contenuti, in cui un linguaggio monosemico e semplificato circolerebbe senza intoppi e a basso costo. Questa visione non contempla, però, il fatto che imparare un linguaggio controllato, o una lingua franca, ha un costo che viene trasferito su chi parla una lingua non dominante. Senza contare poi che, come avviene per l’inglese, la produzione di documenti redatti in inglese a più mani da gruppi multilingui porta a forme di ibridazione sia nella lingua di partenza, sia nelle lingue di arrivo con le successive ritraduzioni. Ibridazioni che vengono moltiplicate dalle memorie e dai database terminologici, che incoraggiano a usare le versioni preesistenti, invece di inserirne di nuove. Ritornando all’esempio dell’Unione Europea, si parla infatti di “euroslang” e di “euroitaliano” per indicare queste lingue ibride.

LINGUA-TRADUZIONE-POTERE

Non si può parlare di costi senza esplorare il rapporto tra lingua, traduzione e potere. Come abbiamo visto, ci sono lingue dominanti, come l’inglese, e lingue minoritarie. A questa asimmetria linguistica, corrisponde un’asimmetria di potere. I Paesi in cui si parlano lingue dominanti, traducono poco da altre lingue e non devono investire per promuovere la traduzione dei propri prodotti culturali. I Paesi di lingue minoritarie, invece, usano la traduzione come strumento di soft-power investendo perché le proprie opere letterarie vengano tradotte in altre lingue, in modo da accrescere il proprio prestigio all’estero. Va detto, però, che il limite tra promozione e propaganda in alcuni casi è molto sottile. Solo se non viene esercitato un eccessivo controllo sui contenuti da tradurre, si può parlare di una libera circolazione del sapere e non di un’operazione di nation branding, magari di stampo nazionalistico.

Le asimmetrie di potere non sono legate soltanto ai rapporti di forza tra le lingue, ma sono influenzate anche dalle tecnologie di traduzione. I servizi di traduzione automatica gratuiti da un lato rendono gli utenti più autonomi, perché non hanno più bisogno della mediazione di professionisti. Dall’altro, però, oltre a renderli dipendenti, trasferiscono su di loro l’onere del post-editing, ossia la correzione del testo pre-tradotto dalla macchina.

Le nuove tecnologie di traduzione più accessibili hanno poi fatto emergere nuove tendenze come il crowdsourcing, il fansubbing o la fan translation. Si tratta di un tipo di localizzazione non ordinaria di contenuti, in genere gratuiti, tramite piattaforme partecipative a opera di comunità virtuali di volontari, spesso non del mestiere. Rientrano in questi esempi i casi di organizzazioni non profit che si occupano di localizzare informazioni di primaria importanza in lingue minoritarie per colmare il divario digitale. Oppure, il crowdsourcing viene usato da gruppi di militanti per tradurre testi che difficilmente circolerebbero nei canali generalisti. La traduzione gratuita, in questi casi, risponde a nobili intenti, tuttavia, nelle mani sbagliate, il crowdsourcing può avere ripercussioni negative. Nel libro si fanno esempi di aziende private, anche molto famose, che hanno provato a sfruttare il crowdsourcing per farsi tradurre i contenuti dai fan. Chi si presta a queste operazioni svilisce il lavoro di traduzione e contribuisce a deprezzarlo.

OLTRE GLI STEREOTIPI SULLA TRADUZIONE

Tra i motivi per cui vi consigliamo questo libro, c’è sicuramente il modo in cui l’autore scardina senza pietà alcuni stereotipi legati alla traduzione. Ad esempio, fin dall’introduzione Cronin specifica che, quando parla di traduzione, non fa distinzione tra traduzione di serie A (letteraria) e di serie B (tecnica, scientifica e commerciale). Per lui tutti i tipi di traduzione sono importanti in egual misura e necessitano della stessa cura e precisione.

Un altro stereotipo fortemente criticato dall’autore è quello che vede la traduzione come un ponte tra lingue e culture. Questa che Cronin chiama “teoria messianica” della traduzione troverebbe terreno fertile in un’era globale e iperconnessa come la nostra. Ma è davvero auspicabile? Non dovremmo forse iniziare a ripensare alla traduzione come testimone del limite, immersa nella corrente linguistica tra un argine e l’altro, invece che sospesa in cielo?

Di certo questo libro non dà soluzioni al problema sollevato all’inizio, però fornisce molti spunti di riflessione e dovrebbe essere letto soprattutto dai potenziali clienti, per scoprire i risvolti meno noti della nostra professione e fare scelte più consapevoli quando si tratta di rivolgersi a un fornitore di servizi linguistici.