La torre di Babele è forse l’immagine più famosa che viene associata alla traduzione. La costruzione leggendaria, di cui si narra nel libro della Genesi, avrebbe dovuto far ascendere gli esseri umani al cielo, ma spinse Dio a confonderne il linguaggio in modo che, incapaci di capirsi, abbandonassero l’impresa e si disperdessero per il mondo. E fu così che nacque la traduzione, più o meno.
Nel libro che vi presentiamo oggi, Marcello Fois ci racconta la sua personale Babele e ci regala riflessioni preziose dal punto di vista di uno scrittore tradotto su quelle strane creature che sembrano avere «il compito preciso di travisare ciò che scrivi, ma nel modo giusto: perché tradurre significa tradire, per far vivere il testo non solo in un’altra lingua, ma in un’altra cultura. E il testo, si suppone, ringrazia; ma l’autore?»
Nel memoir letterario La mia Babele, Fois parte dai ricordi d’infanzia per aprire lo sguardo alla storia, alla letteratura e a una riflessione sul mondo attraverso le lingue. Dopo una nascita rocambolesca e due battesimi, uno in articulo mortis, l’autore si ritrova con «una caterva di nomi»: Marcello Antonio Giovanni Maria. Sarà Antonello in famiglia e Marcello per il resto del mondo. Come se non bastasse, cresce in una famiglia sardoparlante e trascorre i primi anni di scuola a imparare l’italiano «a calci». Fin dalla tenera età si autotraduce per poter comunicare al di fuori della cerchia famigliare, facendo presto i conti con i falsi amici, come tazza che vuol dire sia “tazza”, sia “bicchiere” in lingua sarda.
In questo processo di appropriazione di un nuovo linguaggio, una grande alleata è la lettura. Il piccolo Fois impara a leggere da solo e in gran segreto. Si misura anzitempo con libri come Moby Dick o il Conte di Montecristo, che non comprende del tutto, ma che stimolano in lui il desiderio di scrivere storie. Prende vita così il suo primo “romanzo”, di ben una pagina e mezza, intitolato L’evasione. Da quell’acerbo tentativo infantile, la via verso la consacrazione come scrittore sarà ancora lunga. Infatti, dopo una breve parentesi alla facoltà di medicina, l’autore decide di seguire la propria vocazione e di iscriversi a Italianistica a Bologna. In quel periodo Fois segue tutte le lezioni, ma non capisce nulla. Poi, grazie al professor Raimondi, l’illuminazione: «capire significa dare un senso a quello che si fa e, dunque, scoprire il senso di tutto ciò che si è fatto. Ma il punto è che indietro non si torna. […] Ecco perché, a un certo punto, la mia lingua madre mi è sembrata un rifugio di purezza, perché potevo usarla senza capirla, senza presagirla, senza tradurla.»
Alla fine Fois si laurea e, dopo anni trascorsi a scrivere come secondo lavoro, nel 1992 vince il premio Calvino con Picta. Il nostro autore descrive così quel periodo: «Tutta la stagione seguente al Calvino è stata per me un immenso intertempo in cui ho voluto con tutto me stesso non sentire l’urgenza di dichiararmi uno scrittore. Avevo, e ho, un terrore costante di quel sentimento. Dell’idea cioè che il punto fosse diventare scrittore e non esserlo.»
Nonostante queste titubanze iniziali, la carriera di scrittore decolla e vedono la luce le prime pubblicazioni, con le conseguenti traduzioni. Nel capitolo Il privilegio di essere tradotto, l’autore scrive: «In una buona traduzione cambiano e si adattano questioni abbastanza ininfluenti: modi di dire, punti di vista, ma quell’attitudine, la mentalità narrativa che contraddistingue un grande scrittore, è soverchiante rispetto a qualunque arbitrio.» Fois passa poi in rassegna le traduzioni dei suoi libri, analizzando l’approccio con cui sono state svolte. Scopriamo così che, tra i vari traduttori per l’inglese, Patrick Creagh ha involontariamente adottato un approccio che Fois definisce colonialistico, nel senso che tradisce il tentativo di imporre una visione “selvaggia più che selvatica”, come dimostra la traduzione del titolo Sempre caro in The Advocate. Creagh restituisce una lingua “magari bellissima, magari affascinante, magari pregna di esotismo accattivante, magari, ancora, foriera di quel brivido primitivo che tanto piace ai civilissimi lettori d’oltremanica, tuttavia non pari.” Questo approccio è al centro di un acceso dibattito tra autore e traduttore. Dibattito reso difficoltoso dal rifiuto di Creagh per la tecnologia che lo fa essere raggiungibile soltanto al bar del paese a orari stabiliti e per un quarto d’ora al massimo. La traduzione di Memoria del vuoto, sempre a opera di Creagh, viene duramente criticata da Thomas Jones sul Guardian, dimostrando la fondatezza dei dubbi di Fois sull’approccio adottato dal traduttore.
In Francia si verifica una situazione analoga. Nelle prime traduzioni dei romanzi di Fois viene eliminato qualunque “sardismo lessicale” a favore del sardismo “ambientale”. Il primo traduttore, Serge Quadruppani, già traduttore di Andrea Camilleri, cerca di “camillerizzarlo” e punta sull’esotismo anziché sull’aspetto linguistico. Solo Dominique Vittoz, alla quale viene affidata la traduzione de L’altro mondo, tenta di enfatizzare la mescolanza italo-sarda che non è solo una cifra stilistica, ma anche un contenuto storico e sociale, senza però riscuotere un grande successo. La traduzione riceve aspre critiche, quasi avesse osato mettere in dubbio «l’intangibilità della lingua francese».
L’approccio tedesco al “materiale sardo” è invece più “tecnico” che poetico, considerato che il più grande studioso di linguistica sarda è Max Leopold Wagner, autore di un Dizionario etimologico. Poi c’è la Spagna. Dalla dominazione spagnola il popolo sardo ha ereditato molti lemmi catalani e castigliani, oltre che una certa visione dei sardi, considerati dai conquistadores «pocos, locos y malunidos (pochi, pazzi e disuniti)». Nelle prime traduzioni spagnole, Fois ravvisa l’approccio di chi si trova a maneggiare un pezzo della propria cultura, piuttosto che una cultura altra con la quale, per un certo periodo, c’è stato un contatto, non senza produrre risultati “addomesticati”, se non imprecisi.
Questi sono soltanto alcuni degli esempi di traduzione presi in esame nel testo. Per avere un quadro più preciso, vi invitiamo a leggere il libro, in cui l’autore ci rende partecipi anche degli scambi avuti con chi ha accompagnato i suoi personaggi in giro per il mondo. Vi invitiamo, inoltre, a soffermarvi sul capitolo dedicato alla traduzione dei titoli dei romanzi che ha prodotto risultati curiosi e, a volte, discutibili e dal quale prendiamo in prestito la chiusa: «Ma, in realtà, c’è poco da capire o da giustificare. Si tratta della stessa cosa detta in tantissimi modi diversi, oppure di mille modi diversi di dire la stessa cosa. In ogni caso è la stessa cosa che conta.»