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In che lingua sogno

Se è vero che, come recita un proverbio ceco, “si hanno tante vite quante sono le lingue che si conoscono”, allora Elena Lappin di vite ne ha vissute ben cinque: nata in Russia, cresciuta in Repubblica Ceca e trasferitasi appena adolescente con i genitori in Germania, compirà gli studi universitari in Israele per traslocare in seguito prima a New York e poi a Londra con il marito e i figli. Per dirla con le sue parole, la sua vita “potrebbe essere descritta come cinque lingue in cerca di autore”, un susseguirsi di “traslochi e trasformazioni da un rifugio linguistico a un altro”. Un po’ come per Jhumpa Lahiri, di cui vi abbiamo parlato qualche articolo fa, anche per lei l’identità è un concetto difficile da definire, e non potrebbe essere altrimenti viste le complesse circostanze che l’hanno portata a vivere quello che lei stessa definisce un “caos multiculturale”.

Morire e rinascere linguisticamente

Le citazioni che abbiamo riportato sono tratte dal suo bellissimo memoir, intitolato In che lingua sogno? e pubblicato da Einaudi. Noi lo abbiamo letto tutto d’un fiato e lo abbiamo apprezzato molto perché non è solo una lettura piacevolissima e scorrevole, ma anche una dichiarazione d’amore per le lingue e la linguistica. Inoltre è un viaggio appassionante, che risponde alle domande “io cos’ho dentro di me, cosa mi porto appresso?” e che ci fa immergere nell’habitat narrativo delle vite vissute da Lappin e dai suoi parenti. Sì, perché in questo memoir si dipana la matassa genealogica della scrittrice, la quale a 48 anni, in seguito a una telefonata, scopre che il padre non è il suo vero padre e decide quindi di risalire alle proprie radici fatte di “connessioni invisibili” con lo scopo di “portare alla luce tutti quei fili sepolti”. Lappin lo spiega bene nel capitolo Segui le lingue, dove tra l’altro risponde alla domanda che dà il titolo al memoir e spiega perché ha scelto l’inglese come l’idioma in cui esprimersi in qualità di scrittrice e in cui rinascere dopo essere “morta” linguisticamente in seguito al trasferimento prima in Repubblica Ceca e poi in Germania.

Lingua madre

Se la famiglia di Lappin non fosse mai emigrata, l’autrice avrebbe avuto come lingua madre il russo. E probabilmente lo avrebbe imparato molto bene, considerato quanto il nonno tenesse alla sua educazione. Nel capitolo Un elenco di prime parole russe scopriamo che “grazie all’affettuosa attenzione di mio nonno per la mia prima acquisizione di competenze linguistiche, so con certezza assoluta che a quell’età (un anno e dieci mesi) ero in grado di pronunciare venti parole o frasi”. Ancora oggi, quel foglietto di carta in cui il nonno aveva appuntato le parole riportando la pronuncia della nipotina e a fianco quella corretta è una delle pochissime testimonianze scritte che l’autrice ha del proprio legame con la lingua del paese natìo.

Quando la madre di Lappin nel 1958 lascia la Russia e si trasferisce a Praga con la figlioletta di tre anni, pensa di farlo in maniera definitiva, e in effetti per i successivi 12 anni non ci saranno altri stravolgimenti se non traslochi all’interno della città stessa. Il destino, poi, tornerà inevitabilmente a bussare alla loro porta, ma lasceremo scoprire a voi come e perché.

In quei 12 anni di permanenza a Praga, la scrittrice cresce assimilando la lingua e la cultura ceca esattamente come una madrelingua e considerandosi ovviamente tale, dal momento che non ha reminiscenze della sua precedente vita in Unione Sovietica se non per il fatto che con i genitori continuerà a parlare russo aderendo a “un processo di stratificazione linguistica e culturale comune a tutti i bambini immigrati. In casa si parla una lingua, fuori un’altra, che i figli imparano a padroneggiare mentre i genitori, con il loro accento e i loro errori di grammatica, restano per sempre degli stranieri. […] Le mie radici moscovite erano un ricordo lontano, presente solo nel russo che parlavo a casa con i miei genitori. I confini erano chiari: la mia lingua era il ceco; la loro, il russo.” In famiglia, Lappin non aveva il permesso di mescolare le due lingue, e, secondo una sua supposizione, il divieto era dovuto al fatto che “in ceco avevo la meglio io”. Simpatico, in questo senso, un aneddoto descritto nel libro: un giorno, mentre Elena si sta allacciando le scarpe alla velocità di un bradipo, il padre sbotta dicendole “Mi stai bevendo il sangue!”, che è una tipica frase idiomatica russa. Per tutta risposta, la bambina gli chiede sorniona: “E come lo bevo? Con un bicchiere o con una tazza?”.

Il ruolo della traduzione

Forse ora, giustamente, vi starete chiedendo: “Sì, ma quando si parla di traduzione?”. Bè, nel corso della narrazione Lappin ne parla a più riprese, perché figlia di un traduttore (il padre adottivo) dal ceco al russo, il quale “i primi tempi traduceva tutto quello che gli veniva proposto: testi tecnici, aride descrizioni di prodotti, articoli di giornale… Molti anni dopo avrebbe tradotto sottotitoli di film e opere letterarie.” Fa molto sorridere l’episodio riportato nel capitolo Tu non scrivi, vero?, in cui l’autrice racconta di quando, allettata dall’idea di poter seguire per un periodo le orme paterne, rispose a un annuncio in cui si cercavano persone che conoscessero le lingue straniere per tradurre sottotitoli cinematografici, e per poco non si ritrovò a sottotitolare film porno. Capita l’antifona, scappò a gambe levate ancora prima di iniziare.

Traduttrice era anche la in che nonna materna della scrittrice, Bessie, che aveva una passione per i dizionari condivisa dalla stessa Lappin, la quale a un certo punto ci rivela di essere stata traduttrice a sua volta e di averne preso coscienza rileggendo i propri diari, tenuti fin da bambina inizialmente in ceco e poi di punto in bianco, dopo tanti anni, in inglese: “Rileggendoli avevo notato qualcosa che mi era sfuggito, o forse avevo censurato, quando riflettevo su come ero diventata una scrittrice di lingua inglese: prima di essere una scrittrice ero stata una traduttrice. Avevo tradotto articoli e manoscritti lunghi quanto un libro, perlopiù testi accademici. Mio padre continuava a dirmi di smettere: – Si può tradurre solo nella propria lingua materna. E tu non sei di madrelingua inglese -. Aveva ragione. Ma la traduzione fu per me un ottimo esercizio per sfrondare l’inglese dall’aura mistica di lingua straniera e immergermi nella sua sintassi e nel suo vocabolario”.

E sempre a proposito di traduzione, vogliamo lasciarvi con un’immagine molto tenera che Lappin ha trovato descritta nel libro di memorie della madre e che riporta così: “Anche se eravamo appena arrivate da Mosca, il mio nuovo padre doveva consegnare una traduzione la mattina dopo e non aveva ancora finito di rivederla. Mia madre racconta, con pennellate intense e appassionate, che fece capolino da dietro le spalle del marito, vide per la prima volta il suo lavoro e si offrì di aiutarlo. Sedettero l’una accanto all’altro, leggendo e correggendo la sua traduzione di un testo ceco in russo, e lavorarono fino a tarda notte nella stanza immersa in una luce verde. La luce creata dal panno che avevano avvolto attorno alla luminosa lampadina che pendeva dal soffitto, perché non disturbasse il mio sonno. […] Completarono il lavoro e il suo nuovo marito aveva le lacrime agli occhi. […] avere una moglie di madrelingua russa, per giunta capace di aiutarlo anche a correggere le traduzioni, era un sostegno prezioso per la sua professione.”