Negli anni Trenta l’Italia fu il paese europeo che pubblicò il maggior numero di traduzioni. Considerato che si era in pieno fascismo, questa affermazione potrebbe risultare improbabile; verrebbe infatti naturale pensare che in un periodo in cui Mussolini sognava di imporre l’egemonia culturale italiana non soltanto nel nostro paese ma anche fuori dai suoi confini, l’eventualità di tradurre libri provenienti da altre nazioni non venisse nemmeno presa in considerazione. E invece no. Non solo le traduzioni non venivano censurate (si iniziò a farlo solo nel 1938 e non tanto per motivi culturali bensì razziali, con l’introduzione delle leggi antisemite), ma se ne producevano in quantità incredibili, complici editori illuminati del calibro di Mondadori, il quale aveva un talento particolare nel trattare con il regime: “colpevole” di far tradurre troppo, riusciva sempre a farsi assolvere facendo notare che sì, in catalogo aveva molte traduzioni, ma che si trattava in gran parte di “generi che non hanno, presso di noi, dei cultori o ne hanno assai pochi”.
Di editoria e di traduzioni nell’Italia fascista ne parla ampiamente Christopher Rundle nel libro “Il vizio dell’esterofilia”, tradotto per Carocci Editore da Maurizio Ginocchi. Tra le curiose informazioni contenute nel volume, spicca quella relativa ai lettori-traduttori: poiché Mondadori (sempre lui) dava molta importanza alle traduzioni, aveva assunto lettori che oltre ad aiutarlo a scegliere i libri meritevoli di traduzione e a individuare le parti che sarebbe stato meglio censurare per via di contenuti che rimandavano a temi proibiti quali il suicidio e l’aborto, spesso li traducevano anche. Non c’è quindi da stupirsi che tra le motivazioni addotte dai solerti censori del Partito per limitare l’importazione di cultura straniera ci fosse anche la cattiva qualità delle traduzioni, “zeppe di errori e di refusi”. Interessante anche la questione relativa all’albo dei traduttori: finita la guerra d’Etiopia, il Sindacato Nazionale Fascista degli Autori e degli Scrittori propose di istituirne uno per poter monitorare che cosa venisse tradotto e da chi. Come riporta Rundle, “il Sindacato aveva deciso di compilare un elenco dei ‘principali traduttori classificati per lingue e per specialità’, elenco […] il cui scopo era di ‘addivenire ad una disciplina delle traduzioni e dei traduttori”. Ci fu chi propose anche di “includere il nome del traduttore sul frontespizio. […] va notato che quest’ultima proposta non costituiva una forma di riconoscimento per il traduttore, ma serviva a renderlo responsabile insieme all’editore della qualità del suo lavoro.”
Se anche voi siete curiosi di conoscere la storia e le vicissitudini delle traduzioni nell’Italia fascista, “Il vizio dell’esterofilia” non vi deluderà. Oltre ai dati statistici su cui Rundle si è basato per trarre le conclusioni, troverete anche tante curiosità che vi faranno considerare la questione con maggior consapevolezza.