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La traduzione come terapia

Per una volta, il libro che vedete nella foto non sarà il protagonista assoluto della rubrica, ma piuttosto un punto di partenza per affrontare un tema senza dubbio insolito.

Ciò che si dice della traduzione lo sappiamo: che è fedele, che tradisce, che nobilita, che fa da ponte tra culture diverse, che dice quasi la stessa cosa, che deve essere invisibile, che serve due padroni, che è un atto politico. Nessuno, però, l’ha mai definita una “terapia”, e oggettivamente è difficile immaginarla come tale. Eppure, qualcuno che ha voluto inserirla nel programma riabilitativo di un paziente psichiatrico c’è stato: il dottor Gaston Ferdière, precursore di quella che oggi conosciamo con il nome di arte terapia.

Leggendo Alice in manicomio – Lettere e traduzioni da Rodez si scopre la storia tormentata dello scrittore, poeta, drammaturgo, attore e regista teatrale francese Antonin Artaud. Nato a Marsiglia nel 1896, è stato l’ideatore del cosiddetto Teatro della Crudeltà, espressione con cui designava un tipo di teatro in aperta rottura con quello della sua epoca e orientato a coinvolgere in maniera attiva il pubblico impiegando “tutti i mezzi d’azione atti a suscitarne la partecipazione incondizionata”. Per Artaud, la barriera tra la rappresentazione teatrale e il pubblico doveva essere infranta. Come? Eliminando ad esempio palcoscenico, costumi, scenografie e permettendo agli attori di muoversi liberamente in mezzo agli spettatori, perché “una vera opera teatrale scuote il riposo dei sensi, libera l’inconscio compresso, spinge a una sorta di rivolta virtuale, impone alla collettività radunata un atteggiamento eroico e difficile. […] La rappresentazione teatrale è un delirio, ed è comunicativa”.

Il delirio, nel caso di Artaud, è anche personale: dagli anni Trenta del Ventesimo secolo, dopo un viaggio in Messico in cui diventerà dipendente dalle droghe, inizierà a soffrire di problemi psichiatrici che lo porteranno prima all’arresto e poi all’internamento in diversi manicomi. Ed è nel 1943 che entra in contatto con il dottor Gaston Ferdière, quando viene trasferito nel manicomio di Rodez, dove resterà fino al 1946.

Nel capitolo introduttivo di Alice in Manicomio, intitolato Il tempo della riappropriazione di sé, leggiamo che il drammaturgo francese giunge nella struttura in condizioni terribili: “È magrissimo, sporco, la barba lunga. Non gli rimangono che pochi denti. […] È smembrato, privo della propria coscienza”. Questo accadeva a febbraio: il paziente si firmava con un altro nome sostenendo che Antonin Artaud fosse morto anni prima; inoltre non sapeva stare a tavola, sputava e comunicava più a gesti che a parole. Nel settembre del 1943, il drammaturgo francese è trasformato. È tornato in sé, ricorda quando è nato e come si chiamano i suoi genitori ed esprime il desiderio di mettersi in contatto con la madre. Che cosa era successo in quei sette mesi? Era successo che Ferdière, che pur aveva agito come uno psichiatra del proprio tempo infliggendo ad Artaud terribili sedute di elettroshock (a quanto pare innumerevoli), si era mostrato anche illuminato. Aveva cioè avuto la grande intuizione di provare a recuperare il paziente attraverso l’arte-terapia, incoraggiandolo nello specifico a tradurre: “La mano di Artaud ha dovuto imparare di nuovo a scrivere, grazie alla corrispondenza sempre maggiore intercorsa con i suoi amici (all’inizio, bisognava obbligarlo a una risposta, anche se corta e piena di formule precostruite), grazie soprattutto alle traduzioni che gli ho chiesto come amico: […] avevo bisogno, per diversi lavori che stavo svolgendo, di un adattamento di una poesia di Lewis Carroll o di un intero capitolo di Attraverso lo specchio”. […] Qualche giorno più tardi, Artaud ha trovato il suo lavoro stampato nero su bianco: è avvenuto dopo tanti anni di oscurità e silenzio; la sua gioia è stata immensa; ho visto il suo sguardo illuminarsi; rileggeva i suoi versi con una soddisfazione non dissimulata; la partita sembrava vinta”.

L’intero capitolo di Attraverso lo specchio a cui fa riferimento lo psichiatra è il sesto, quello in cui compare Humpty Dumpty. Ad affiancare Artaud durante la traduzione è il cappellano del manicomio di Rodez, che conosce molto bene l’inglese. Fin da subito, Artaud ha un rapporto conflittuale con Carroll perché dubita del valore semantico di molte parole usate dallo scrittore britannico (“Sono uno stupido. Per molto tempo ho creduto di essere sicuro del senso delle parole, fino a un certo punto, il loro padrone. Ma ora che le ho sperimentate un po’, il loro senso mi sfugge.”). La controversia raggiunge livelli altissimi quando si trova ad affrontare il jabberwocky, poesia nonsense difficilissima da rendere perché piena di portmanteau words, parole-valigia che comprimono due parole in una sola.

L’atteggiamento del drammaturgo francese nei confronti di Carroll è ambivalente. All’inizio Artaud è entusiasta di affrontare la traduzione ed elogia la creatività dell’inventore di Alice:

“Ho anche poi pensato a qualche altra espressione per tradurre Humpty Dumpty, ma il passo che riguarda le parole portmanteau mi sembra di un’attualità stupefacente. E capisco il perché le sia venuta in mente l’idea di far tornare di moda il libro di Lewis Carroll. Certamente è humour allo stato puro. […] Spero di terminare il lavoro per la metà della prossima settimana.”

Due anni dopo, però, subentra la frustrazione:

“Non ho fatto la traduzione di Jabberwocky. Ho tentato di tradurre un brano, ma la cosa mi ha annoiato. Quella poesia non mi è mai piaciuta. […] Jabberwocky è l’opera di un approfittatore che ha voluto ingozzarsi intellettualmente, saziarsi di un pasto ben preparato, rimpinzarsi del dolore altrui. Dico questo perché l’ho percepito.”

Ed ecco quindi che il capitolo che in inglese si intitola semplicemente Humpty Dumpty diventerà, nella resa artaudiana, L’arve et l’aume – Tentative antigrammaticale contre Lewis Carroll, cioè una sfida per nulla velata, “un febbrile corpo a corpo linguistico”, come lo definisce il traduttore Pasquale di Palmo nella postfazione di Alice in manicomio. E un corpo a corpo deve essere stato anche per Leonardo Boero rendere in italiano le traduzioni artaudiane di Attraverso lo specchio: “traduzioni di traduzioni di testi psicotici, intraducibili”, come le ha definite Pietro Barbetta nel saggio Artaud/Carroll/Joyce. Il sistema letterario psicotico tra ironia e agglutinazione (piccola divagazione, perché merita e perché chi scrive ha un debole per la letteratura umoristica: il saggio è contenuto nella rivista online Fillide – Il sublime rovesciato: comico umorismo e affini. Sicuramente una piacevole scoperta).

Nel bene o nel male, la traduzione di Attraverso lo specchio ha avuto il merito di risvegliare in Artaud un fuoco che sembrava ormai irrimediabilmente estinto: lo ha posto di fronte alle sfaccettature del linguaggio, lo ha obbligato a confrontarcisi, ad accoglierle o a respingerle, a farle proprie o a usarle per creare a propria volta un linguaggio personale. Nel bene o nel male, tradurre lo ha spinto a uscire dal torpore e lo ha aiutato a riprendere coscienza di sé, facendolo sentire di nuovo vivo.

Ora sappiamo che la traduzione, per qualcuno e in un’epoca lontana, è stata anche una terapia.