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Siamo ciò che traduciamo

Oggi, per #traduzioneacolazione, vi serviamo un libro fresco di stampa: Siamo ciò che traduciamo – Cinque discorsi sul tradurre, a cura di Stefano Arduini, edito da Marcos Y Marcos e pubblicato a maggio 2024.

Nell’introduzione, Stefano Arduini ci spiega che questo libro è nato dalla volontà di celebrare il venticinquennale di “Tradurre la letteratura”, il corso di traduzione letteraria che la Fondazione Unicampus San Pellegrino organizza dal 1996. A causa dell’emergenza sanitaria, “invece di una grande festa alla quale invitare tutti coloro che avevano contribuito al successo del Corso […] si decise di organizzare una serie di webinar facendo intervenire traduttore e traduttologi che avevano collaborato […] durante quel quarto di secolo. L’ultimo appuntamento fu quello del 13 aprile 2021 che, con il titolo di “Perché tradurre” accolse un dialogo tra Franco Nasi, Daniele Petruccioli, Enrico Terrinoni e il sottoscritto” (Stefano Arduini). “L’occasione fu interessante per diversi motivi ma soprattutto perché mise in luce un percorso di ricerca e riflessione con alcune caratteristiche comuni che faceva intravedere […] un comune modo di intendere un discorso sul tradurre. Ne parlai poco dopo con Franca Cavagnoli, con la quale da tempo mi confronto sul senso del tradurre, e ci trovammo d’accordo nel ritenere che in effetti c’era qualcosa che ci accomunava e che fosse necessario sottolinearlo. Da qui all’idea di un libro assieme la strada fu breve e ci mettemmo al lavoro. […] Un aspetto che certamente ci accomuna è di essere tutti traduttori […]. Di avere Inoltre ritenuto che un pensiero serio sul tradurre non potesse esimersi dal fare interagire l’esperienza concreta del tradurre con la teoria e di avere considerato la prima come elemento costitutivo della seconda. Il che vuol dire credere che il tradurre non è soltanto una pratica […] ma un’esperienza intellettuale e un’avventura del pensiero che non si esaurisce.

[…] La mappa che presento qui può essere disegnata attraverso sette termini che costituiscono il filo rosso del pensare il tradurre che corre in queste pagine.

Tradurre

Il primo termine è tradurre e non traduzione. […] Un processo creativo che getta lo sguardo su nuovi orizzonti.

Esperienza

L’altro termine fondamentale è esperienza. […] qualunque discorso sul tradurre deve partire dalla sua natura di esperienza che può diventare riflessione perché è già in origine riflessione.

Conoscenza

[…] Ed ecco la terza parola, un’esperienza che è anche conoscenza e portatrice di pensiero. In altri termini, nell’atto di tradurre è presente un certo sapere, un sapere sui generis, è l’esperienza concreta delle lingue.

Alterità

[…] Questa esperienza è conoscenza che non parte dal soggetto per ritornare al soggetto ma trova un’alterità che lo decentra. […] preservare l’alterità significa anche comprendere che la distanza non può essere colmata.

Accogliere

[…] ‘Accogliere’ è il termine che naturalmente viene dopo ‘Alterità’. Accogliere non significa cercare di rendere l’altrui uguale, o pensare che lo sia, perché in questo modo eserciteremo una violenza che priva entrambi dell’identità. Dobbiamo accettare quello spazio vuoto. È il rispetto innanzi al mistero a cui l’alterità ci richiama.

Identità

[…] Se tradurre è entrare in relazione con l’alterità in un rapporto che non deve essere di annullamento e appropriazione allora inevitabilmente interroga le nostre identità, il nostro essere anche noi come l’Altro che incontriamo, uno straniero di passaggio. Un’identità mobile che si costruisce nella relazione.

Trasmutare

[…] Tradurre è continuamente una sfida per chi traduce perché non possiamo parlare di traduzione realmente se non mettiamo in gioco il fatto che fra due lingue, due culture, due mondi c’è sempre un qualche tipo di differenza e che dobbiamo accettarla. […] È solo a partire da questo riconoscimento che siamo allora in grado di ammettere che ogni traduzione modifica il testo di origine e lo apre a un destino di nuove letture e interpretazioni. […] Questo movimento del senso ci suggerisce infine che tra testo d’origine e traduzione il legame cronologico non è il più importante; conta piuttosto un rapporto di reciproco debito.”

Dopo l’introduzione si snodano i cinque discorsi sul tradurre la cui peculiarità consiste nel fatto che ruotano attorno a un punto di vista talvolta diverso da quello a cui siamo abituati.

Sono due, in particolare, i discorsi che ci hanno colpito e su cui vogliamo concentrarci.

Il primo è quello di una vecchia conoscenza della rubrica, ovvero Franca Cavagnoli. Il suo contributo è intitolato: “Ospiti del linguaggio: del tradurre e dell’interpretare”.

Cavagnoli rileva come “chi traduce si confronta spesso con una costrizione: scegliere” ma “la vera sfida del tradurre è accogliere l’Altro e dargli ospitalità […] nella propria lingua e nella propria cultura senza che la lingua e la cultura di chi traduce neghino l’altrui riducendolo al proprio e tentino di assimilare l’elemento estraneo.” Interessante anche la considerazione secondo cui “La traduzione […] è anche una delle forme della scrittura,” un esercizio nel quale non bisogna però cedere alla tentazione di addomesticare eccessivamente, relegando la scrittura degli autori che si traducono a un ruolo subalterno. “Tradurre diventa dunque come percorrere la sottile corda del funambolo, sospesa tra l’equilibrio e il rischio”, non per ultimo quello di cadere nel tranello del “traduttese”.

Cavagnoli ci parla poi della traduzione come di un arricchimento che permette di “allargare i propri orizzonti linguistici e culturali e, così facendo, di allargare anche quelli di chi leggerà […]. Poche discipline si confrontano con alterità e ibridazione in maniera tanto costitutiva e ineludibile come la traduzione. […] nel tradurre si va a toccare con mano, nella fisicità della scrittura, l’alterità, e nel trasporre il testo in un’altra lingua si ‘vive’ l’ibridazione da dentro.”

In questo procedimento che deve rifuggire l’’omogeneizzazione’ dei testi, “per essere ospitale – ospite del linguaggio – chi traduce può mirare ad attingere fino all’ultima goccia del testo da tradurre per riprodurre […] l’’irripetibile modulazione estetica’ del testo, senza limitarsi a far passare, cioè, la mera comprensione contenutistica. Per farlo è fondamentale lavorare con cura sulla lettera, perché è così che si può dare degna ospitalità all’estraneo senza snaturarlo e senza assimilarlo.”

L’altro discorso che ha attirato la nostra attenzione è quello di Franco Nasi, anche lui già ospite della nostra rubrica. Il suo intervento ha un titolo provocatorio: “Mats on cats: MAT tool come antidoto alle Digital dishumanities”.

A partire da una delle prime frasi che si imparano in inglese, ovvero “The cat is on the mat” (anche se forse nel nostro immaginario il gatto è più spesso “on the table”), Nasi usa la parola “MAT” associata a tool per fare “un ingenuo gioco di parole a partire da CAT tool” in cui CAT è“ acronimo di Computer Assisted Translation. […] MAT è un neo-acronimo, coniato per questo articolo, e sta per Mind Assisted Translation.”

L’autore ci invita a riflettere su quale sia il ruolo più consono da affidare alla Machine Translation, ormai imperante: “Quello che si cerca di mostrare in questo articolo è che accanto all’euforia per i risultati fin qui ottenuti negli ultimi anni dalla ricerca delle intelligenze artificiali applicate alla traduzione permangono problemi ecologici, etici, sociali, pedagogici che non possono essere trascurati o ignorati. […] Accanto a testi specialistici, in qualche modo prevedibili e tendenzialmente non ambigui e denotativi, ci sono testi forse particolari, che possiamo molto genericamente chiamare letterari, che dovrebbero invece ricordarci che questi strumenti artificiali vanno considerati appunto per quello che sono, e cioè strumenti, di cui una mente critica e creativa può servirsi con profitto.” La traduzione automatica su cui lavorare è “una specie di vincolo alla creatività, un ‘corsetto’ imposto alla libertà di scrittura, che offre soluzioni sintattiche, lessicali che poi limitano o indirizzano pesantemente le scelte traduttive. Una volta indirizzati in una certa direzione poi è difficile intraprenderne un’altra. Si perde inoltre la capacità di vedere la coerenza stilistica dell’intero racconto perché si procede lavorando su pezzi più brevi del testo. Non si sente più l’esigenza di intervenire sull’insieme del testo con le compensazioni, così fondamentali per ricreare un testo che sia coeso e stilisticamente coerente. […] la migliore soluzione non è una machine-assisted translation, ma un artefice, un professionista artigiano o autore che dir si voglia, che si serve degli strumenti offerti dalla più avanzata tecnologia per svolgere al meglio il suo lavoro di scrittore. […] Quando parliamo di traduzione, parliamo di una delle attività umane più complesse, totalizzanti e vitali che la mente umana è stata in grado […] di svolgere.”

Sperando di aver suscitato la vostra curiosità, vi invitiamo ad approfondire anche gli altri contributi, quello di Daniele Petruccioli, intitolato “Capirsi, crearsi, corrispondersi. Incompletezza e onnipresenza del tradurre in quanto tratto umano”, in cui si afferma, tra l’altro, che “tradurre vuol dire avere a che fare col bello e col diverso, sempre.”

L’articolo di Enrico Terrinoni, dal titolo “Tradurre, tessere, essere”, impreziosito da giochi di parole e da un pizzico di ironia, presenta teorie interessanti, come quella secondo cui la traduzione dovrebbe approdare già nelle scuole primarie e secondarie.

Nel discorso di Stefano Arduini, intitolato “Perché tradurre. Ovvero la traduzione come filosofia” leggerete di come il tradurre sia “un’esperienza che crea spazi cognitivi nuovi […] e dunque […] ha una valenza filosofica”. E leggerete anche che “Ascoltare è il prendere su di sé lo straniero senza pretesa di risposta. Ecco il senso del tradurre.”

Scoprite sfogliando i punti di vista di questi cinque traduttori di lungo corso che cosa li porta ad affermare, in sostanza: “Traduco, ergo sum.”