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La traduttrice, di Efim Etkind

Per la #traduzioneacolazione di oggi vi presentiamo quello che per noi è un gioiellino: un racconto del critico letterario russo, nonché traduttore, Efim Etkind, edito dalla casa editrice In Transito.

Nel buio della notte staliniana la storia di Tat’jana Gnedič accende una luce. È la fiaccola della poesia che nessun regime può oscurare. Affrontando a memoria la traduzione in russo di un poema di Byron mentre si trova in prigione come “nemica della patria”, Tat’jana Gnedič compie un’impresa prodigiosa, un atto di resistenza nei confronti dell’ottusità del potere.

Il destino di Tat’jana Gnedič è comune a quello di altri rappresentanti dell’intelligencija russa: la loro colpa fu quella di avere una testa pensante e uno spirito libero.

Un destino sperimentato anche dall’autore di questa testimonianza, lo studioso di letteratura Efim Etkind (1918-1999). Ostacolato dal regime sovietico, Etkind fu privato della possibilità di insegnare e costretto a emigrare.

“Tat’jana Gnedič, tris nipote del traduttore dell’Iliade, all’inizio degli anni Trenta aveva studiato all’università di Leningrado, perfezionandosi nella letteratura inglese del XVII secolo ed era stata così presa dagli studi da non accorgersi di quanto le accadeva intorno.”

Nel 1945 la protagonista viene condannata a una pena di dieci anni. Mentre si trova nel carcere di Leningrado, traduce a memoria qualche migliaio di versi del Don Juan di Lord Byron, lasciando di stucco un inquirente che, colpito dalla sua stravaganza e maestria, le fa avere il libro del poeta inglese e una cella individuale, nella quale, nell’arco di due anni Tat’jana Gnedič traduce interamente l’opera, sacrificando perfino le ore d’aria.

“Quando mise il punto finale all’ultimo canto, fece sapere all’inquirente che il lavoro era terminato. Egli la convocò nel suo ufficio, prese la montagna di fogli e le comunicò che l’avrebbero fatta partire per il lager soltanto dopo che il manoscritto fosse stato battuto a macchina. La dattilografa del carcere ne ebbe per un bel po’. Quando il lavoro fu terminato, l’inquirente fece rivedere alla Gnedič tre copie. Il primo esemplare fu riposto in una cassaforte, il secondo venne consegnato alla traduttrice […]. Per quanto riguarda il terzo, l’inquirente chiese a chi si poteva inviare per un parere. Fu così che la Gnedič fece il nome di Lozinskij.” Il manoscritto accompagna la protagonista durante gli otto anni di lager e rappresenta un vero e proprio rifugio dall’orrore: “Nel buio della notte staliniana la storia (vera) di Tat’jana Gnedič accende una luce. È la luce della bellezza che sola può offrire un’ancora di salvezza. […] Con la sua stravaganza e la sua memoria prodigiosa Tat’jana Gnedič si rivela capace di sopravvivere all’orrore del carcere e a otto anni di lager grazie alla fiamma della poesia che arde dentro di lei e al dialogo intellettuale che intreccia con un poeta vissuto in un altro paese, in un’altra epoca e del quale diventa un’interprete eccezionale.”

Al ritorno a casa Tat’jana Gnedič non ha un posto dove andare e viene ospitata dagli ex vicini, la famiglia di Efim Etkind.

Il suo Don Juan viene pubblicato e ottiene un successo inatteso, tanto che il regista Akimov chiede alla traduttrice di trarne una riduzione da mettere in scena. Durante la sera della prima, il pubblico chiede a gran voce che l’autrice salga sul palco, riferendosi naturalmente alla Gnedič, che in realtà è “solo” la traduttrice, ma che a ben guardare ha compiuto un’impresa epica.

Il racconto, breve quanto avvincente, è corredato da un contributo della traduttrice, Giulia Gigante: un piccolo saggio sul racconto e una nota sull’autore, Efim Etkind, che oltre a essere un grande critico letterario era anche un traduttore e un teorico della traduzione.

Ultima, ma non ultima, chicca: le riproduzioni delle xilografie a corredo dei volumi che compongono la collana Masereel, che prende il nome dall’illustratore belga Frans Masereel.

Sperando di avervi fatto venire l’acquolina con questo piccolo assaggio, vi invitiamo a divorare questo racconto, proprio come abbiamo fatto noi.