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La scatola di latta

P è una creatura senza storia né età, un artista o un poeta (“il che per molti aggiungeva mistero al mistero”); vive isolato nella piccola comunità di Ics osservandola dalla sua soffitta “come in fondo alla lente di un cannocchiale”; apparentemente non fa nulla e non si sa come riesca a campare, salvo sperperando il patrimonio di famiglia. Beato praticante della pigrizia come sottile forma di eversione, finirà inaspettatamente nel cosiddetto corso della realtà quando iniziano a prodursi bizzarri fenomeni che travolgeranno la pacifica vita della cittadina. Tra epidemiche amnesie, primavere in pieno inverno, scombussolamenti urbanistici, inspiegabili sparizioni, la chiave del rebus è sotto gli occhi di chi legge.

Oggi, per #traduzioneacolazione vi serviamo La scatola di latta, edito da Voland, […] un’avventura ironica nel labirinto del linguaggio, una fabula universale sulla lettura come viaggio verso la salvezza.

Molto probabilmente, chi traduce non saprebbe (e sicuramente non vorrebbe) ipotizzare un mondo senza parole, una realtà in cui le persone non sono in grado di comporre frasi di senso compiuto per esprimere ciò che desiderano.

Questa è la sciagura che si abbatte sugli abitanti di Ics, che di punto in bianco si scoprono vittime di una “inspiegabile razzia linguistica” in seguito alla quale balbettano “frasi bucherellate”. Per fare giustizia, occorrono “detective esperti in reati ‘alfabetici’ […] e l’intervento di una qualche forza speciale, di un reparto di polizia ‘verbale’”.

“Per colmare i vuoti del discorso”, gli Icsiani (Enne, Bi, Ti, Kappa, Elle, Acca, e così via) adoperano “una tale sovrabbondanza di puntini sospensivi, due punti, punti e virgola, parentesi, chiocciole, virgolette, punti esclamativi e altri segni di interpunzione gettati a caso nel vortice delle improvvise afasie, che tutti quei segni, liberati nell’aria in quantità abnormi, s’addensavano appena sopra le teste e poco più su dei lampioni erigendo l’enorme nuvola ortografica ancorata sull’abitato che né sole né vento ormai riuscivano più a dissipare”.

Ignaro di questo “trambusto di ammanchi e stranezze”, il piccolo poeta P continua imperterrito a comporre i propri versi, malgrado mille avversità, avvalendosi di “‘pagine di fortuna’, […] materie combustibili che non osava ancora ardere perché indispensabili al suo lavoro. E così, a tarda notte, smagrito, debole, affamato, intirizzito, si addormentava felice al ritmo incessante delle sillabe, mormorando versi di sonetti ebbri e spietati, inquieti e ridenti che fiottavano copiosi sulle sue labbra impallidite, e si scordava di tutto”.

In seguito allo sfratto esecutivo, P incontra poi l’assistente sociale Emme, che troverà nella scatola di latta del piccolo poeta la chiave per svelare e risolvere il mistero di questa terribile “peste verbale”.

Ci fermiamo qui per non svelarvi il curioso epilogo della storia, che vi invitiamo a leggere perché scritta in un italiano “pettinato”, com’è ormai difficile trovarne anche sulla carta stampata.

Sfogliando queste pagine tanto curate, viene da chiedersi se la metafora dell’epidemia verbale di Ics non sia una provocazione dell’autore, Paolo Donini, e un’allusione all’impoverimento lessicale che si osserva nella società contemporanea. L’antidoto contro questa minaccia sembrano essere proprio i libri e la lettura, il riappropriarsi di un linguaggio ricco e vario, non banale, ma incisivo e carico di significati e significanti che rischiano altrimenti di andare perduti.

Perciò, lunga vita alle parole che danno voce alle persone e corpo alle cose, e lunga vita al piccolo poeta P!