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La lingua senza frontiere

Il calendario editoriale di #traduzioneacolazione viene compilato con molto anticipo rispetto alla pubblicazione degli articoli, perché ciclicamente ognuna di noi fa un’accurata ricerca bibliografica e stila un elenco dei titoli che stuzzicano la sua curiosità, poi ne parla con le altre per valutare se i testi scelti possono andare bene per il blog, e infine stabilisce quale libro leggere e per quale data. A volte, però, capita di vagare per la nostra città, Torino, posare gli occhi sulla vetrina di una libreria e vedere un titolo che ci attira particolarmente. A quel punto avviene un breve scambio di messaggi nella nostra chat e si decide di inserirlo in corsa perché “è diverso dal solito”. Ecco, è proprio quello che è successo con La lingua senza frontiere – Fascino e avventure dello Yiddish, scritto da Anna Linda Callow e pubblicato da Garzanti. Non sapevamo nulla dello yiddish, perciò abbiamo pensato che sarebbe stato interessante provare a colmare questo vuoto. Ci siamo dette: “Per una volta, usciamo dal seminato e proviamo a insinuare un po’ di sana curiosità verso una lingua meno diffusa”.

 

Un ibrido affascinante

E allora eccoci qui, a scoprire che l’idioma degli ebrei ashkenaziti, cioè quelli dell’Europa centro-orientale, risale al Decimo secolo e racchiude in sé tre “personalità”: una ebraica, una germanica e una slava. Come ci spiega Callow, autrice del libro e traduttrice, siamo di fronte a una lingua che “fa parte di quelle che gli studiosi moderni chiamano Jewish Languages, le lingue giudaiche sviluppatesi nella diaspora […] a partire dalle parlate delle popolazioni circostanti”. Una sorta di spugna, quindi, capace di assorbire termini di altri idiomi e di farli propri, dando vita a un ibrido affascinante. Nel prologo, la scrittrice introduce rapidamente alcune nozioni di base dello yiddish, spiegandoci che i tre elementi che lo compongono “sono scritti in caratteri ebraici e si leggono da destra a sinistra, ma secondo due sistemi diversi, perché molto diverse sono le ‘famiglie’ linguistiche da cui gli elementi provengono”. Segue poi un interessantissimo discorso sulla grafia antica e su quella moderna, nonché sulla traslitterazione dall’ebraico e dallo yiddish, che vi lasciamo il piacere di approfondire, se ne avrete voglia.

Se cent’anni fa parlavano yiddish milioni di persone, oggi si stima che la cifra sia scesa a circa 400.000. Il motivo è facilmente intuibile, considerando ciò che è successo durante la Seconda Guerra Mondiale. Attualmente, a mantenere viva la lingua sono per lo più ebrei molto osservanti che vivono in Israele e negli Stati Uniti, però Callow ci ricorda giustamente che “l’impronta lasciata dalla sua cultura ha proporzioni ben più vaste dell’esiguo numero dei suoi parlanti attuali, e travalica i confini linguistici. La ritroviamo in autori come Saul Bellow, Chaim Potok Mordecai Richler, nel cinema dei fratelli Marx, di Mel Brooks, di Woody Allen e dei fratelli Cohen […]”.

Rivolgendosi a un pubblico che non per forza conosce le vicende storiche legate alla nascita dello yiddish, l’autrice del volume traccia un quadro il più possibile esaustivo, anche se ovviamente condensato, utile a fissare date salienti, avvenimenti principali, personaggi storici e scrittori più importanti. E a proposito di autori e libri, il capitolo nove offre uno spaccato della produzione romanzesca dall’Ottocento in poi, periodo in cui la letteratura yiddish ripartì “con modelli e rigore diversi” dando il via alla sua fase moderna. Callow ci suggerisce qualche titolo tradotto in italiano che può rappresentare un valido spunto per avvicinarsi alla cultura yiddish e alle tematiche che la contraddistinguono, come Tewye il lattaio, una sorta di “Mark Twain ebraico” scritto da Sholem Aleichem (scritto anche “Aleykhem”), considerato appunto il padre della letteratura yiddish moderna.

 

Puoi farlo tu?

Proprio in relazione ad Aleichem, Callow ritiene che sia “il più incline alle prodezze linguistiche” e che “il suo talento è fatalmente più difficile da convogliare in traduzione – provate a pensare di tradurre Camilleri, che in fondo gioca solo con il siciliano, in una qualsiasi lingua – ma senza dubbio è fonte di grande piacere cimentarvisi. […] Tuttora sono convinta che alcune opere di Sholem Aleykhem valgano la fatica di impararne la lingua”. In un’intervista che vi invitiamo a leggere, Callow spiega che, un po’ come succede con i romanzi scritti in arabo, i quali per arrivare in Italia hanno bisogno spesso di lingue ponte come l’inglese e il francese, anche nel caso dello yiddish “gli autori […] sono stati trasposti dall’inglese all’italiano semplicemente perché non c’era nessun traduttore disponibile dallo yiddish”. Classe 1966, l’autrice di questo saggio ha iniziato a tradurre in un’epoca in cui le occasioni non mancavano: più o meno come successe a Ilide Carmignani dallo spagnolo, anche Anna Linda Callow si vide proporre la traduzione di un libro dallo yiddish da un professore che faticava a trovare chi avrebbe potuto occuparsene. E così, da un “Puoi farlo tu?” a diventare traduttrice (e oggi anche docente di Lingua e Letteratura ebraica) il passo è stato breve. Piccola curiosità: se avete letto La versione di Barney, scritto da Mordecai Richler e tradotto da Matteo Codignola per Adelphi, forse ricorderete il breve glossario finale delle parole yiddish: bè, a stilarlo è stata proprio Callow.

Il testo che vi abbiamo proposto oggi non è incentrato sulla traduzione, anche perché sarebbe stato davvero troppo specifico e forse avremmo rischiato di perdervi per strada alla seconda riga, però è un ottimo punto di partenza per iniziare a interessarsi a una lingua che, come ha detto Isaac Bashevis Singer, premio Nobel per la letteratura nel 1978, “deve ancora dire l’ultima parola” e “contiene tesori che attendono di essere rivelati al mondo.”